Vivian Maier, la bambinaia con la macchina fotografica: «Sono una sorta di spia»
TRIESTE «Sono una sorta di spia. Non aprite mai la porta della mia camera». Con queste parole Vivian Maier definiva la sua attività quasi segreta di fotografa di strada e la sua dipendenza totale dalle famiglie della “upper class” americana che le mettevano a disposizione una stanza per vivere mentre accudiva come bambinaia i loro figli.
All’attività di Vivian Maier è dedicata la mostra che sarà inaugurata il 20 luglio nelle sale del Magazzino delle idee di Corso Cavour. Saranno esposti 70 autoritratti, undici dei quali a colori, che la fotografa ha realizzato puntando l’obiettivo della sua Rolleiflex 6x6 sui cristalli delle vetrine in cui si specchiava la sua immagine mentre camminava sempre da sola per le strade di New York e Chicago. Aveva appesa al collo la sua reflex biottica e scattava, scattava, guardando la sua immagine messa a fuoco sul vetro smerigliato. Una sorta di gioco di specchi tra la sua figura riflessa nel cristallo della vetrina e contemporaneamente presente nel mirino della Rolleiflex. I settanta autoritratti rappresentano un esile frammento delle 120 mila immagini che Vivian Maier ha realizzato a partire dai primi anni Cinquanta nei giorni di libertà dal lavoro in cui i bambini che le erano affidati restavano con mamma e papà.
«Spesso aveva sommessamente chiesto che la porta della sua stanza non fosse mai aperta» hanno raccontato dopo la sua morte avvenuta nel 2009 alcuni anziani genitori per cui, anni prima, aveva lavorato come bambinaia. In quelle “sue” stanze si erano stratificati migliaia e migliaia di negativi e rullini, molti dei quali in attesa di essere sviluppati. C’erano poi tremila fotografie stampate su carta e chiuse in buste e album e tante bobine di film girati in formato “super 8” e 16 millimetri.
L’archivio era progressivamente aumentato di dimensioni mentre Vivian Maier passava di famiglia in famiglia, di stanza in stanza, e per salvarlo dalla dispersione la fotografa–bambinaia era stata costretta ad affidarlo alle scansie dei cinque armadi di un deposito di Chicago affittato a questo scopo. Poi mentre l’età avanzava e gli stipendi erano sempre più magri Vivian non era più riuscita a pagare l’affitto e il suo immenso e sconosciuto lavoro era stato messo in vendita nel 2007. L’aveva acquistato John Maloof per soli 380 dollari durante un’asta di oggetti espropriati per legge a coloro che non erano stati in grado di rispettare le scadenze dei versamenti dei canoni d’affitto.
Maloof, un giovane immobiliarista appassionato fotografo dilettante, capì presto di essere entrato in possesso di qualcosa di inaspettato e fuori dal comune. Dopo aver stampato alcune foto che pubblicò su Flickr, un sito internet dedicato all’immagine, il nome della bambinaia Vivian Maier iniziò a circolare e a essere conosciuto come quello di un’autrice di grande profondità e sensibilità. Entrarono in scena giornalisti, critici e storici della fotografia, furono stampati libri, scritti articoli e saggi, organizzate mostre e conferenze. Il nome della fotografa che non aveva mai esposto al pubblico le sue immagini, fu presto affiancato a quelli di “maestri dell’immagine” come Robert Frank, Diane Arbus, Helen Levitt.
«Ciò che sorprende nella vita di Vivian Maier - scrive Anne Morin, curatrice della mostra ospitata dal Magazzino delle idee - è come questa donna da una parte abbia accettato la condizione di bambinaia e allo stesso tempo abbia trovato la libertà nell’essere una fotografa di strada. Questo dualismo bambinaia-fotografa, ha innescato una vicenda senza paragoni nella storia dell’immagine».
L’esplorazione sistematica del suo immenso archivio consente ora di definire i dettagli del suo linguaggio, la sua sintassi, i temi ricorrenti nelle fotografie. In altri termini ciò che Vivian Maier amava e su cui puntava ostinatamente l’obiettivo. Le scene di strada, i quartieri periferici in cui erano relegati gli operai, i volti di sconosciuti passanti, il mondo dei bambini, quello degli animali e degli oggetti abbandonati, raccontano molto di lei e della sua vita trascorsa in silenzio, senza sussulti, segnata da una totale precarietà. Lei aveva accettato tutto questo quasi con rassegnazione ed era diventata una fotografa che scivolava tra gli altri, come scivolano gli informatori della polizia, gli agenti segreti, le spie. Ecco perché dopo la scoperta dell’archivio e dell’emersione pubblica del suo nome, qualcuno che l’aveva conosciuta, ha ricordato le sue parole “sono una sorta di spia”.
Altri hanno detto che Vivian Maier era una donna eccentrica forte, riservata e talvolta supponente. Indossava spesso un cappello floscio, un abito lungo, un cappotto di lana e scarpe maschili che le consentiva un potente falcata, “un passo da pianura“ per dirla con Ivano Fossati. Al collo una macchina fotografica, prima la Rolleiflex, poi, a partire dagli anni Settanta, una Leica III F. Con questi due apparecchi tanto diversi anche nelle possibilità espressive ha raccontato negli autoritratti la sua solitudine. Lei ha sempre rimandato verso un futuro indefinito e lontano il proprio desiderio di presentarsi davanti a un pubblico con le proprie immagini. Riunite in una mostra o sulle pagine di una rivista.
Ecco perché i 70 autoritratti esposti al Magazzino delle idee rappresentano il biglietto da visita che in vita la fotografa-bambinaia non ha mai avuto l’opportunità di porgere a un gallerista o a un critico d’arte. —
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