Roberta Bandelli: «Così sono diventata la prima avvocata di Monfalcone»

«Non voglio avere padroni sulla testa»: il suo mantra quando, 32enne, aprì il primo studio. Cassazionista dal ’96 e referente dell’Aiaf, ancor oggi si ritrova, «per passione e coinvolgimento umano», a esercitare. Senza mai smettere di studiare
Roberta Bandelli
Roberta Bandelli

MONFALCONE «L’autonomia, affettiva ed economica. L’istruzione. La libertà. Sono le armi più potenti in mano alle donne. Quando non si parlava ancora dei soffitti di cristallo che schiacciano le carriere femminili, Roberta Bandelli, classe ’52, è stata la prima donna avvocato a Monfalcone. «Non voglio avere padroni sulla testa»: il suo mantra quando, 32enne, aprì il primo studio. Cassazionista dal ’96 e referente dell’Aiaf, ancor oggi si ritrova, «per passione e coinvolgimento umano», a esercitare. Senza mai smettere di studiare: non va a letto se non ha scorto le ultime sentenze innovative. Eppure dal 1° febbraio potrebbe starsene in pensione. Ma lei ama il diritto, non mollerà mai. E dalla poltrona rossa di corso del Popolo, guardando all’8 marzo, dice: “Credo nella forza della donna, che è in grado di superare da sola le difficoltà o, perlomeno, trovare altre donne che la supportino nel superarle”».

Avvocato o avvocata?

«Sarebbe preferibile avvocata, ma per background o riflesso involontario, mi definisco avvocato. Eppure la parità è altresì un fatto di declinazioni».

Che allieva è stata?

«Mio padre, che a 16 anni era stata deportato in un lager nazista per una manifestazione antifascista, di estrazione socialista, mi iniziò a letture non propriamente giovanili, fin dalla quinta elementare, con i Malavoglia».

Esigente.

«Diciamo severe lezioni di vita, tanto che, se il voto riportato a scuola consisteva in un otto, mi chiedeva perché non era un dieci e se il dieci arrivava, allora stavo solo compiendo il mio dovere. E con le entrate limitate al suo stipendio di tracciatore navale al Crda mi ha indirizzato a provvedere, anche in autonomia, alle mie “necessità”. Infatti da giovane ho vendemmiato e dato ripetizioni».

Per questo nutre attenzione verso le fasce deboli e svolge gratuiti patrocini?

«Sì, per insegnamento familiare. Mi sono occupata di Sicet e Sunia, dei sindacati dei lavoratori con la Cgil, delle donne con telefono Rosa, dei minori, di tossicodipendenza. Fino agli anni ’90 credo d’esser stata l’avvocato a trattare con maggior capillarità casi di stupefacenti. Gli assuntori mi vedevano un po’ il punto di riferimento per la categoria debole e in generale per la sinistra».

Non l’ha risparmiata da furti.

«Sì, in studio, roba di poco conto. È stato un periodo molto difficile. Inseguirli nelle carceri. Alcuni clienti mi morivano di overdose».

Come è arrivata alla professione?

«Per caso. Mi ero laureata, dopo studi classici, in Giurisprudenza e m’apprestavo, come si usava, a intraprendere la trafila concorsuale. Un amico, al termine del praticantato da Ginaldi, mi suggerì di tentare il suo stesso percorso, ché “mica il concorso in un ente si vice subito...”. L’ho fatto e mi è piaciuto. Sono rimasta 5 anni. Ginaldi è stato il mio mentore».

Perché non restare lì?

«Ho avvertito la necessità di sentirmi libera e sola. A mia volta ho accolto diversi praticanti e da qui hanno preso vita altri otto studi, in città e fuori».

Una donna come si guadagna il suo posto nel mondo?

«Con l’autonomia e la libertà. Sia affettiva che economica. Prima deve pensare a se stessa, poi al compagno e al figlio. Deve poter contare sulle sue forze, ritagliarsi lo spazio, raccontarsi in prima persona».

Ha figli?

«No, per mia scelta. Tirarne su uno bene è una delle cose più difficili e io lavoro moltissimo. Sono sposata da 35 anni».

La carriera non dovrebbe conciliarsi con la famiglia?

«Dovrebbe. Ma è difficile, non c’è tutela adeguata. È colpa del sistema? Delle leggi? Della società».

Parliamo di tabù: ha svolto davvero il primo divorzio di una bengalese?

«Sì, io e le mie collaboratrici abbiamo aiutato molto questa donna che all’inizio non voleva maturare il passo. Ma era stata abbandonata dal marito, assai più vecchio, con figli minori, e non poteva più rivolgersi alla sua comunità né tornare dai genitori, perché era stata “ripudiata”. Il marito era scappato, irreperibile, eppure è stata lei a esser messa al bando».

E come l’avete convinta?

«Grazie anche ai Servizi sociali siamo riusciti a farle capire che per la sua autonomia avrebbe dovuto separarsi e fare una denuncia penale. Ora lei veste in jeans, ha una sua indipendenza, è una splendida donna che fa la traduttrice e tira su la prole. E, dopo sei anni, è arrivato ora il divorzio».

Occupandosi di diritto familiare, rileva meno maltrattamenti?

«No. Forse qualche denuncia in più, ma un gran balzo in avanti non c’è stato, nonostante il codice rosso. C’è ancora molto timore. E sudditanza all’uomo, anche nei figli».

Pensa sempre che tutti, pure autori di femminicidi, abbiano diritto alla difesa?

«Mi ritengo una persona “democratica” nel senso più esteso dell’accezione e credo che tutti abbiano diritto a un giusto processo. E a una giusta pena». —


 

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