Quando Svevo comprava la miracolosa Ferro-China, medicinale "alcolico" ideato a Trieste
TRIESTE Da poco al Verdi è andato in scena l’Elisir d’amore di Donizetti, in cui un certo dottor Dulcamara vende agli abitanti d’un paesino belga un distillato miracoloso, capace di far innamorare. Potenza della suggestione popolare… Ma se facciamo riferimento all’Ottocento molti sono i preparati venduti dalle farmacie capaci di risolvere i guasti di numerose malattie. E Trieste non era da meno. È questo il caso della famosa Ferro-China Serravallo, prodotta dalla farmacia omonima (ora Al Redentore) di piazza Cavana. Era frutto della ricerca “interna”, e riguardava il famoso Vino di China ferruginoso, sintetizzato da Vittorio Serravallo nei laboratori situati a Barcola.
Grazie alle capacità di marketing del farmacista, questo distillato assurse a grande fama taumaturgica, finendo ben oltre i confini della città, commercializzato persino oltre oceano. La Ferro-China, a dire il vero, conteneva ossido di ferro saccarato (zuccherato), più un estratto di fluidi di china, con aggiunta di ginseng, rabarbaro, arancio e zenzero. Secondo la pubblicità dell’epoca, era indicata per “i deboli e i convalescenti”, e aveva la capacità di “eccitare l’appetito, rinforzare i nervi, rigenerare il sangue” (nientemeno!) ed era particolarmente apprezzata per il suo “sapore squisito”. Dunque, come nel caso dell’Elisir d’amore, possedeva una base alcolica (nell’opera di Donizetti è a base di vino Bordeaux). Il che non guastava per rinforzare la sua “appetibilità” alcolica.
Tra quelli che ci credevano, come accadeva a molti intorno alla fine del XIX secolo, troviamo anche Italo Svevo, il quale, come è noto, aveva seri problemi ipocondriaci e una propensione ad auto-ascoltarsi sin nel profondo delle vene (e con lui Zeno Cosini). Lo sappiamo, oltre che da testimonianze coeve, da una lettera che scrisse alla moglie Livia da Murano il 14 settembre 1904. Da questa lettera deduciamo che la donna, in una missiva precedente, aveva confessato al marito di non sentirsi molto bene. Ed ecco la risposta: «Ho ricevuto la cara tua e penso anch’io che la China Serravallo dovrebbe farti bene…».
Non sappiamo se poi Livia si sottopose a questa cura (perché non tentare? ). Ma è indubbio che un simile prodotto facesse breccia anche nell’immaginario della coppia. «Certo che tutte quelle cure miracolose che prometteva erano un po’ millantate», ci dice Giorgio Du Ban, il decano dei farmacisti triestini, proprietario, con la famiglia, di un’altra storica farmacia come la Picciòla. «Ma al di là del fatto che la Ferro-China Serravallo, essendo composta anche da spirito (Marsala), poteva influire sulla Serotonina, è indubbio che qualcosa faceva, essendo un blando ricostituente. Una cosa è certa: non faceva assolutamente male, anzi, la componente ferrosa aiutava il corpo». E la sua fortuna particolarmente in America come possiamo giustificarla? «Con le capacità imprenditoriali dei Serravallo - risponde Du Ban - i quali astutamente intuirono, proprio per via della componente alcolica del prodotto, che poteva essere venduto liberamente laggiù in quanto classificato come medicinale, proprio durante il Proibizionismo».
Dunque possiamo ben immaginarci Svevo che entra nei locali della Serravallo e che chiede della Ferro-China, per sé o per Livia, che veniva commercializzata in apposite bottiglie colorate (incidentalmente: sono tuttora oggetto di interesse da parte dei collezionisti di modernariato). E in quella farmacia ciò che lo scrittore si trovava di fronte era più o meno lo stesso scenario dei nostri giorni: una boiserie di tutto rispetto. La data in cui Jacopo Serravallo, padre di Vittorio, si trasferisce in Cavana è il 1854, e si sa, a quel tempo il mobilio delle farmacie era tradizionalmente prezioso.
Un patrimonio che, a Trieste, solo alcune farmacie hanno saputo preservare, contribuendo a fornirci un piccolo percorso culturale che si affianca agli altri già esistenti, di tipo letterario e artistico. Nel caso della Serravallo (denominazione originaria che risale al 1801, quando fu fondata da Francesco Boara) il mobilio espositivo copre i tre lati del salone vendite, con una balconata elegante in stile lineare classico. A considerarla come un’opera d’arte, dobbiamo ricordare che risale alla metà dell’Ottocento e che fu smontata dalla vecchia sede e rimontata in Cavana con tutta la sua struttura in mogano, olivo e acero.
Dello stesso pregio sono anche le boiserie di almeno altre farmacie antiche. Basti citare: Al Sant’Andrea di piazza Venezia, del 1860, in cui vi sono intarsi in noce massello e sovrapporte sontuose, colonnine scanalate a mano e ovunque inserti di radica, nonché vetri naif che rappresentano la crocifissione di Sant’Andrea; e la Biasoletto di via Roma, 1806, con arredi in stile neo-moresco veneziano, colmi di intarsi e fregi floreali (lo stesso pavimento è interessante, a mosaico in ceramica). Cui si deve aggiungere All’Ercole Trionfante di piazza San Giovanni, 1805, con arredi inizio Novecento, molto accattivanti, che culminano con un trompe-l’oeil sul soffitto. Su tutte queste farmacie, poi, campeggia un orologio d’epoca (molto bello quello della Biasoletto). Un motivo legato al tempo, che tra l’altro troviamo, in un contesto diverso, anche in un locale più “ludico” come la Pasticceria Pirona di Barriera (che a metà giugno, salvata dai triestini, riaprirà gloriosamente). –
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