Le storie concitate di Covacich così vere da sembrare inventate

“La sposa”, nuova raccolta di racconti, domenica 21 a Pordenonelegge: si pone come una sorta di continuazione ideale di “Anomalie” (1998)
Di Mary Barbara Tolusso
Ghostly Bride in attic --- Image by © Elisa Lazo de Valdez/Corbis
Ghostly Bride in attic --- Image by © Elisa Lazo de Valdez/Corbis

di Mary Barbara Tolusso

In fondo non sarebbe male consumare un “safari umano”, per gioco naturalmente, bisogna ammettere che almeno una volta nella vita si è pensato di sparare a qualcuno. Così come talvolta c'è del fosco intendimento negli occhi di alcune madri che riconoscono, in sordina, l'esasperata comprensione per chi ha commesso un figlicidio. E certo è piuttosto liberatoria anche la faccenda che la natura, prima o poi, fa sempre fuori la cultura. Tutte le frustrazioni che ci abitano, insomma, e che vorremo liberare anche in modo sinistro, Mauro Covacich ce le consegna in una pagina-specchio. I suoi libri sono così, non indietreggiano, non barano, ti dicono in bella forma che anche tu, appunto, sei quaggiù nel fango ad annaspare in mezzo a tutti noi. “La sposa” (Bompiani, pag. 190, euro 16,00), da oggi in libreria e il 21 settembre a Pordenonelegge, si pone come una sorta di continuazione ideale di “Anomalie” (1998), siamo quindi di fronte a dei racconti. Racconti il cui dato evidente, nonostante i diversi timbri, è l'uniformità della voce.

D'altra parte quella di Covacich è piuttosto inconfondibile, anche perché è uno dei pochi autori italiani che non scrive come un autore italiano. Per spiegarci: non troveremo mai nei suoi testi infinite descrizioni paesaggistiche, dialoghi misurati ed esasperanti riflessioni concettuali. No. Quella di Covacich è una scrittura concitata, bella, essenziale (non carveriana), va dritta ad allegorie o similitudini che non annoiano, non si lascia imbrigliare da alcuna retorica. Uno stile decisamente più United States, anche per ciò che riguarda la fantasia, le soluzioni inventive.

“La sposa” è pure il titolo del primo dei diciassette racconti e il suo soggetto - con tutti i suoi orpelli vocati alla purezza - fa saltare subito in aria l'immaginario collettivo, al punto che l'abito bianco diventa una vera e propria performance. Ma di performance ce ne sono parecchie, lo spettacolo di Covacich è implacabile, non ha intenzione di farci bere le solite storie. Sui figli, per esempio. Sulla distinzione tra chi ne ha e chi decide di non averne, questi ultimi spesso bollati come sterili peter pan, come se quelli dotati di prole non esprimessero anch'essi pura e semplice volontà di affermazione. Oltre al fatto che “non siete voi a riprodurre la vita, ma è la vita a riprodursi attraverso i vostri corpi”, scrive Covacich. E Dawkins docet. Storie che cavalcano sempre una bizzarra sorpresa, talmente reali da sembrare surreali, come il bellissimo “Safari”, l'ultimo racconto (forse il migliore), nutrito anche dall'omonimo testo teatrale dell'autore. E poi ricordi da middle class, quando ci si improvvisa opinionisti di qualcosa che non si considera alla nostra altezza, salvo poi scoprire che la nostra altezza si rivela un abisso di pochezza com'è narrato in “Ogni giorno che vai via è un quadro che appendo”. Diversi racconti portano il sottotitolo di “identikit”, “ritratti” o “favole per bambini vecchi”, fiabe alla Covacich naturalmente, quindi aspettatevi di entrare in empatia con il lupo quando sbranerà cappuccetto rosso. Allo stesso modo calcolate bene i codici dei ritratti, perché il più eversivo è sempre il più “normale”. A meno che non abiti a “Tor Bella Monaca” dove il nostro, proustianamente, mette insieme nomi e luoghi per scolpire uno stato d'animo. Tra l'altro il meccanismo strutturale si avvale di personaggi che ritornano, in diversi ambiti e prospettive. E poi c'è Trieste, conflittuale e bella come sempre, assorbita nella voce di un bambino, Marco, pochi anni alle spalle e già convinto che l'Italia sia solo qui. Ma in fondo anche l'autore, che vorrebbe correggere la formula, si lascia andare a un'ambivalente, indocile, contraddittoria, ribelle, lirica triestinità.

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