Dall’esodo da Fiume al sogno a stelle e strisce: storia della donna che vide nascere i cellulari

Nel libro di memorie “In America non voglio andar” (Oltre Edizioni) Mirella Zocovich Tainer ripercorre le tappe di un'incredibile vita da esule  

TRIESTE L’essenziale è altrove, l’essenziale è sempre altrove. Nel cuore di Mirella Zocovich Tainer è ubicato tra il lavoro alla catena di montaggio della Motorola, l’azienda statunitense leader nel campo dell’elettronica, e il Mololungo di Fiume che le signorinelle raggiungevano dopo aver “lustrà el Corso” per farsi buttare qualche occhiata dai giovanotti. Neanche il tempo di compiacersene e scocca il 1946, il tempo della fuga, il tempo dell’esodo dalla Jugoslavia di Tito.

Fiume Dalmazia-Chicago Illinois, sede della Motorola, cardine il Lago di Garda, che da decenni rappresenta la bombola d’ossigeno della diaspora internazionale da cui prendere una boccata d’aria.

In occasione dell’ultimo raduno degli esuli fiumani, lo scorso anno, Mirella Zocovich viene invitata a fissare su carta, come parlasse, ricordi, aneddoti, considerazioni di una vita divaricata: piantata in America nel 1962, le radici a Fiume. Così, con la stessa freschezza con la quale si rivolge a tavola ai compatrioti istro-dalmati, zigzagando tra gli argomenti che sbocciano uno dentro l’altro, è nato “In America non voglio andar” (Oltre Edizioni, pagg. 250, euro 16).

Lei rappresenta il sogno americano incarnato. Ha cominciato da operaia e poi com’è andata?

«Che, io, ’mula de Fiume’– racconta l’autrice, 88 anni – mi sono risvegliata in piena rivoluzione tecnologica. Tre giorni di apprendistato e via, in catena di montaggio, a incastrare e saldare pezzi minuscoli. Licenziata, laid off, una volta sola, con il diritto al sussidio per una settimana, terrore puro. Poi pian piano ho assunto crescenti ruoli di responsabilità. Alle dipendenze dell’ingegnere che per primo al mondo ha sviluppato il telefono portatile. Facevo parte del gruppo che ha messo a punto il ’six sigma’, zero difetti, programma che viene insegnato all’università. Ho sperimentato nei miei reparti i primi codici e adoperato i primi computer».

Moglie, madre, donna in carriera. Com’è possibile conciliarle in un mondo nuovo che dà ma molto pretende?

«Mi pare incredibile. Non tanto per quello che sono riuscita a fare, quanto per la mole di concetti che ho dovuto imparare, inconcepibile se si pensa che giungo dal piccolo mondo antico di Fiume prima, di Torino poi. Bilanci finanziari, psicologia industriale, esposizioni pubbliche in una lingua non mia e non certo dal nitore shakespeariano. Trattare di remoto con altre sedi, come la Malesia, viaggiare in altri Stati degli Usa, risolvere problemi di produzione…».

Ne sarà orgogliosa, vero?

«Sì, ma ancora adesso dopo tanti anni mi disturba che la Motorola, per ottenere contratti governativi, dovesse raggiungere una certa percentuale nell’impiego di minoranze in posizioni manageriali. Sono allergica alle quote da riserva indiana».

Lasciata Fiume, lei e la sua famiglia avete vissuto alcuni anni a Torino. Come mai avete deciso di partire?

«A Torino da principio siamo stati accolti molto male. Ci chiamavano fascisti, crumiri, polentoni. Ci siamo stretti tra noi esuli. Avevamo perduto tutto salvo il rimpianto. Io a scuola a 14 anni indossavo due scarpe destre. Mio papà Franzele, panettiere a Fiume, si ritrovò ai forni delle acciaierie Fiat, lavoro durissimo e pericoloso. Nel 1956 ai miei genitori venne rilasciato il visto per gli Usa; io e mia sorella, già sposate, li seguimmo displaced person sei anni dopo. Da Malpensa con il volo inaugurale Alitalia in guanti bianchi, Milano-Chicago. Chicago ci accolse nera, ignota».

Due sorelle per due fratelli, tutti uniti da un destino comune?

«Un caso straordinario. Mia sorella Ina, più giovane di 16 mesi, e io, conoscemmo a Torino due profughi. Dusan Tainer, il mio idolo pallacestista quando stavamo a Fiume, e suo fratello Danilo. Da quel momento saremmo stati inseparabili, almeno fino alla morte dei nostri mariti. Avremmo coltivato il giardino interiore dei ricordi, allevato i nostri figli facendogli amare la lingua italiana e il dialetto, così come loro lo insegnano ai loro figli».

Come è riuscita a ricreare Oltreoceano un nido italo-dalmata?

«Chi perde il proprio passato non costruisce il futuro. Io ho raccontato, instancabilmente; l’amore per la mia città mi ha infuso energia, ho sempre tenuto viva la fiammella della memoria famigliare e non, costruendo una rete di protezione interiore che ci fa sentire fiumani e italiani, non sono sicura dell’ordine d’importanza. A questo punto è indifferente che si viaggi per il sabbioso Texas ammirando le code dei cavalli che avremmo pensato di vedere solo nei film dei cowboy. Lo strappo dalla mia terra è atroce e inconsolabile, ma condividerlo xe le ciavi del porton. Il cuore riceve una sferzata tale che sono ancora lì, ragazzina dalle trecce bionde, che passeggio davanti alla cattedrale di San Vito, o addento l’oresgnazza il dolce di noci, o le palacinche. E sempre davanti al mio mare, fin dal primo mattino». —
 

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