La chef Klugmann: «Un’erba di campo può diventare un piatto stellato»
TRIESTE Ama definirsi cuoca, piuttosto che chef, ma per descrivere i suoi esordi nel mondo della cucina, non esita a dichiarare che ha iniziato come “bubez”, ovvero tuttofare, come si sunteggia a Trieste. Antonia Klugmann, da lavapiatti, ne ha fatta di strada prima di assurgere all’Olimpo degli chef stellati e far parte addirittura del quartetto giudicante di Masterchef, assieme a Bruno Barbieri, Antonino Canavacciuolo e Joe Bastianich. Partecipare alla settima edizione del famoso cooking show le ha regalato notorietà verso un ampio pubblico ma è durata giusto il tempo per non distrarla dal suo primo amore, la cucina, il ristorante, l’orto.
A un chilometro e mezzo dal confine con la Slovenia, precisamente a Vencò, frazione di Dolegna del Collio, è nato nel 2014 il suo ristorante che ha chiamato “L’Argine”. Klugmann non ha bisogno di pompose presentazioni: triestina, classe 1979, studi in Legge prima degli apprendistati e dei piatti lavati in cucina, nel 2004 padrona di casa dell’Antico Foledor Conte Lovaria (Pavia di Udine) e alcune importanti esperienze – al Ridotto di Venezia e al Venissa di Mazzorbo, dove conferma la stella della precedente gestione – fino all’apertura de L’Argine, dal 2015 premiato da una stella Michelin.
Tappa imprescindibile per tutti i palati gourmet, il ristorante è incluso nella Top 100+ European Restaurant di “Opinionated About Dining”, al 47esimo posto. Durante i mesi del lockdown ha deliziato i palati di molti anche a domicilio inaugurando anche a Trieste un punto di ritiro per il suo delivery, “Antonia a Casa”.
Eppure, tutto comincia con un orto.
È stato un proprio orto, quello di casa mia a Torreano nelle Valli del Natisone, che mi ha dato la possibilità di riprendermi dopo l’incidente d’auto da giovanissima. Quell’orto mi ha cambiato la vita perché mi ha insegnato ad avere un approccio creativo anche in campagna. Ed è un orto il primo progetto intrapreso a Vencò, ancora prima di costruire l’edificio che ospita il ristorante. Mi aiuta a comprendere meglio le verdure, il modificarsi del gusto a seconda di come vengono coltivate.
Come definirebbe il suo rapporto con l’orto?
Direi quasi iniziatico, per me è un laboratorio. Sebbene non creda che la creatività, anche in cucina, nasca da qualche elemento in particolare poiché si tratta di un talento, nel mio caso mi aiuta molto la bellezza, come fonte inesauribile di emozioni e l’armonia che regalano la campagna e l’orto, a partire dai ritmi che impongono e da quanto insegnano. Ogni settimana accade qualcosa e il momento della primavera rappresenta il risveglio di profumi e colori che spesso non ti aspetti. L’erba ha un odore diverso, il silene si trasforma e può essere raccolto, spuntano i germogli selvatici e anche le erbe più semplici cambiano carattere. Nella Pimpinella diventa più acuto il sentore di melone.
Può una semplice erba di campo diventare protagonista di un piatto stellato?
Certo, e non abbiamo inventato proprio nulla, le erbe sono da sempre usate per insaporire le preparazioni più diverse! Profumare semplicemente un olio con le aromatiche fa fare un salto di qualità a un piatto. Lo possiamo fare con la salvia, con il geranio odoroso o usando il profumo intenso dell’erba Luisa. Una delle mie caratteristiche è di non usare nessun ingrediente raro. Non credo che la creatività di un cuoco si basi sulla rarità e sul pregio degli ingredienti che usa, anche perché la raccolta di erbe rare non si abbina al concetto di sostenibilità che è il fondamento del mio modo di cucinare. Io uso anche le erbacce che crescono nelle vasche del nostro orto o le erbe spontanee e comuni come la Pimpinella che assume caratteri diversi, di melone o di pepe a seconda della pianta. In estate, con l’artemisia selvatica, l’ho abbinata a una variazione di melone a più strati, mousse, parfait e gelatinato.
Al bando frittate e insalate allora.
Insalata sì, anche una semplice lattuga, ma condita con oli aromatizzati e mista a finocchietto, menta, origano, maggiorana, rucola e mentuccia! Le erbe aromatiche insaporiscono tutto, i grassi per condire, i liquori, i pesti e ogni tipo di zuppa, gnocchi e perfino dolci come le cheesecake.
Un consiglio per chi, in questi mesi di lockdown, si è cimentato nella creazione di un orto.
Mai come in questo periodo le persone hanno bisogno di camminare in campagna e di osservare fuori quello che c’è, facendosi sorprendere dalla natura selvatica. Sto studiando il concetto del giardino selvatico, che parte dall’osservazione del preesistente. Questo bisogna fare prima di tutto quando si approccia la costruzione di un orto: osservare le condizioni di partenza per coltivare con successo, avere meno manutenzione e utilizzare razionalmente acqua e fertilizzanti. Quindi su un terrazzo molto assolato potranno riuscire bene le melanzane o i pomodori, meno le piante che hanno bisogno di più umidità. Le vasche sono un’ottima soluzione per controllare l’irrigazione e la definizione degli spazi, anche inserendo piante più piccole in mezzo e piante più alte e per disperdere in generale meno energia. Ad esempio, lo scorso anno sotto le piante di carciofo, dopo lo sviluppo, noi abbiamo seminato rucola, in mezzo ai pomodori la borraggine.
Nel suo orto però crescono le erbacce…
Io ovviamente non uso diserbanti di alcun tipo, che trovo folli. Esistono conoscenze di botanica e tradizioni antiche che ci consentono di essere sostenibili. Qui abbiamo programmato un orto che si è modificato negli anni. Ad esempio, abbiamo recentemente seminato il trifoglio nano prima delle piantine in modo che equilibri la terra ed eviti l’esplodere di erbacce che possono essere in contrapposizione con piante utili. Selezioniamo le erbacce dell’orto in base al loro possibile utilizzo in cucina. Lasciamo piante amiche come il tarassaco o il papavero, che sono ovunque, ma anche il crescione, la portulaca, il lino e la rucola. Da un orto a strops (auiole, ndr) coltivato alla friulana siamo passati alle vasche con irrigazione a goccia.
Sono infinite le erbe che possono essere utilizzate in questo periodo.
Ci sono erbe molto comuni come sclopìt (silene, ndr), pimpinella, erba stella, agliaria, finta ortica, piantaggine, papavero, aglio ursino, e germogli da raccogliere in piccolissime quantità come il bruscandolo, il germoglio di vitalba, i ruscolins (germogli di pungitopo, ndr) o l’ornitogallo.
Cos’è il foraging, una moda?
No, è semplicemente la traduzione di “raccolta del selvatico”, una pratica passata in disuso con il distacco tra la vita di campagna e di città, quella che si faceva nelle fattorie, nei conventi, nei boschi e negli orti più antichi, per le erbe medicinali e di cucina. Da sempre esiste in Italia, presente nella nostra cultura popolare e non. Erbe fini ed erbe forti sono presenti in tutti i ricettari, dalle cicorie selvatiche, alle bacche ai funghi. Insomma, termine modaiolo nell’inglesismo, non nella sostanza. Etico, sostenibile, moderno come la cucina di Antonia Klugmann, che è parte dell’ambiente circostante, dà molto spazio agli elementi naturali e ai prodotti selvatici figli, appunto, del foraging. -
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Riproduzione riservata © Il Piccolo