I segreti di Maryla Lednicka scultrice dimenticata delle navi triestine
di Arianna Boria
C’è qualche collezionista privato, o qualche istituzione triestina, che custodisce nelle sue raccolte un busto dell’armatore Oscar Cosulich sulla cui attribuzione nutre dei dubbi? O magari possiede qualche altra scultura di pregevole fattura, in marmo o legno, la cui firma è un nome avvolto nella nebbia? Pezzi recuperati da qualche nave andata distrutta?
L’autrice di queste opere potrebbe essere un’artista polacca, Maryla Lednicka, famosa e apprezzata in Italia tra gli anni ’20 e ’30 del secolo scorso, che raggiunse l’apice della carriera con alcune opere realizzate per navi costruite a Trieste e a Genova: la Victoria, il Conte di Savoia, il Rex e l’Oceania.
Maryla ebbe in sorte il destino peggiore che può capitare a un artista: le sue più importanti sculture, anche monumentali, collocate a Milano o sulle navi, sono state inghiottite durante la seconda guerra mondiale, distrutte o perdute. E il suo nome, quando non è caduto nel buio più totale, è stato confuso con quello di Tamara de Lempicka, di cui, per ironia del destino, Maryla fu amica per alcuni decenni: si frequentarono a Parigi tra il 1919 e il 1923, quando la Lednicka lavorava anche con l’architetto Adrienne Gorska, sorella di Tamara, poi a Milano e infine a New York, dove la Lednicka arrivò nel 1938 e la Lempicka nel ’42, ritrovandosi a vivere a pochi isolati di distanza. Qui Maryla si suicidò, nel 1947, gettandosi da una finestra: il fratello Waclaw, grande slavista e docente all’Università di Berkeley, testimoniò che era depressa e aveva problemi economici, al punto da non riuscire nemmeno più ad acquistare la materia prima per le sue sculture.
A investigare in quello che è un appassionante “giallo” artistico, ma soprattutto a ricostruire una carriera arrivata ai vertici della fama e poi piombata inspiegabilmente nel dimenticatoio, è la storica dell’arte Gioia Mori, che in Maryla si è imbattuta proprio attraverso Tamara, di cui è la massima esperta in Italia. «In effetti - racconta - è una storia che sembra uno scherzo del destino. Sono stata infatti interpellata dalla Banca d’Italia per visionare una scultura, che faceva parte della collezione dell’istituto dai primi anni 30. Già negli anni ’50 si era perso il nome dell’autrice, forse perchè troppo difficile da trascrivere. Nel ’97 l’opera fu sottoposta a restauro e in quell’occasione eminenti studiosi la attribuiscono a Tamara de Lempicka: è firmata, ma il cognome “Lednicka” venne letto male. Quando ho visto la scultura - prosegue la professoressa Mori - ho subito riconosciuto “L’angelo nero”, un’opera che avevo visto pubblicata in diversi articoli della stampa polacca negli anni ’20 e ’30, perchè all’epoca era tra le più famose di Maryla Lednicka. Così ne ho ricostruito l’intera storia, restituendole la giusta “maternità”». L’attribuzione corretta è pubblicata nel bel catalogo Skira che correda la mostra su Tamara de Lempicka allestita nei mesi scorsi alla Pinacothèque di Parigi (8 aprile-8 settembre 2013), e curata dalla Mori: il libro ricostruisce il rapporto tra le due artiste e rende giustizia postuma alla vera artefice dell’”Angelo nero”. La scultura era stata esposta a Parigi nella mostra “La Jeune Pologne” nel ’22 e poi in due personali della Lednicka a Milano, nel ’24 e nel ’26.
Ma chi era Maryla Lednicka? E qual è il suo legame con Trieste? Di lei troviamo traccia in due articoli del “Piccolo”. Il primo, del luglio 1931, cita due opere realizzate per la “Victoria”, motonave costruita dal Lloyd Triestino per il servizio celere Trieste-Alessandria d’Egitto: il pannello di legno con una scena di caccia, accanto allo scalone che dal secondo conduce al terzo e quarto ponte, e la “Vittoria rutilante d’oro” collocata nel bar. In chiusura si fa menzione anche del busto di Oscar Cosulich, ma senza dare di quest’ultimo ulteriori riferimenti. Il secondo articolo, dell’aprile 1932, firmato da Mieczyslaw Treter, il maggiore storico dell’arte polacco dell’epoca, dà notizia della partecipazione di Maryla alla XVIII Biennale di Venezia come artista indipendente, fuori da gruppi o correnti.
Nata nel 1893, Maryla Lednicka approda a Parigi nel 1913 e poi vi ritorna nel ’19, dopo la prima guerra mondiale, ed espone al Salon d’Automne del ’20. In quegli anni divorzia dal marito, il nobile Wladislaw Niemirowicz-Szczytt, ma per un po’ sceglie di firmare col suo cognome da sposata, uno scioglilingua impronunciabile. In Italia arriva nel 1924 col padre, lo statista Alexander Lednicki, personalità politica molto in vista, e fa tappa a Varese nella villa di un amico di famiglia, il banchiere Jozif Toeplitz, presidente della Banca commerciale italiana e potente mecenate degli artisti polacchi: doveva essere per lei un breve soggiorno estivo, vi rimarrà quindici anni.
Fu molto stimata dagli artisti e dai critici italiani. La sua personale del ’26 a Bottega di Poesia, la galleria di via Montenapoleone a Milano gestita dal conte Emanuele Castelbarco, fu presentata da Carlo Carrà. A Milano collaborò con due architetti di punta, Giuseppe de Finetti e Piero Portaluppi, ornando con quattro gigantesche cariatidi il Padiglione degli Alimentari della Fiera di Milano progettato dal primo, e con una statua la fontana firmata dal secondo per la Banca commerciale italiana. «Finora - racconta Gioia Mori - il corpus di opere della Lednicka che ho rintracciato è costituito da due sculture che sono al Muzeum Narodowe di Varsavia, una del Museo teatrale di Cracovia, oltre alla tomba Lednicki a Varsavia. In Italia ho ritrovato la fontana realizzata con Portaluppi in via degli Omenoni a Milano, nel 1930, che poco dopo venne rimossa. È stata rimontata in un cortile interno di Banca Intesa, ma nessuno sapeva chi ne fosse l’autore. È l’unica opera monumentale della Lednicka che si sia salvata».
Per quanto riguarda le opere per le navi, Mori precisa: «L’articolo pubblicato sul Piccolo nel ’31 aveva avuto una certa risonanza sulla stampa polacca e io ne avevo notizia attraverso “Wiadomosci Literackie” di quell’anno. La “Victoria” fu disarmata a Genova all’inizio della seconda guerra mondiale, per essere utilizzata nel trasporto delle truppe in Africa, e poi affondata nel ’42 nel golfo della Sirte. Ora è da vedere se nel disarmo quelle opere si salvarono e magari sono “anonime” in qualche casa oppure se andarono veramente distrutte...».
Su Maryla Lednicka, Grazia Mori sta scrivendo una monografia, che uscirà il prossimo anno. Sicuramente la scultrice realizzò busti per committenti triestini, oltre a quello di Cosulich, che potrebbero trovarsi ancora nelle case degli eredi o in qualche istituzione cittadina.
C’è qualcuno che può aiutare la studiosa a completare il catalogo delle opere di Maryla, ricostruito finora attraverso documenti, immagini, archivi tra Polonia, Italia, Francia e Stati Uniti? Anche una sola scultura può essere un tassello importante per restituire identità all’artita dalla vita come un romanzo, celebrata e poi divenuta fantasma. E questo tassello, magari finora ignorato, può essere qui, a Trieste.
@boria_A
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