Cinquant’anni fa all’Isola di Man l’ultima corsa fatale di Gilberto Parlotti, talento triestino delle moto

Il 9 giugno del 1972 il terribile incidente costato la vita al pilota triestino. Era in testa al Mondiale. Oggi questa gara – un rito, una sfida alla morte – viene disputata ancora, pur essendo stata espulsa dal circuito mondiale nel 1976 per l’incredibile numero di incidenti che la contraddistinguono: quelle strade hanno stroncato a partire dal 1907, l’anno della prima edizione, la vita di 250 piloti.

Claudio Erné

TRIESTE Per capire chi fu Gilberto Parlotti e l’urto emozionale che mezzo secolo fa suscitò la sua morte non solo a Trieste, è opportuno guardare a quel 9 giugno 1972, il giorno in cui in sella alla “Morbidelli 125” sull’isola di Man stava volando verso la vittoria e il titolo mondiale. Qualcosa non andò nel verso giusto, la pioggia frustava il pilota e la moto lanciati a 160 all’ora. Sembrava fatta.

Invece l’uscita di strada, la caduta paurosa, i soccorsi concitati e la fine di tutto. Buio per sempre.

Ancora oggi il fluire del tempo non è riuscito a cancellare il sospetto di un guasto meccanico, il blocco del cambio della sua “Morbidelli”, un bolide ancora acerbo che solo Gilberto Parlotti riusciva a guidare e far vincere. Il mancato inserimento di una marcia avrebbe impedito al pilota di affrontare alla velocità opportuna l’ultima curva della Verandah, la parte più insidiosa dei terribili 62 chilometri del tracciato del Tourist Trophy. Discese e curve, muretti incombenti sul percorso e asfalto di diverse qualità, case e steccati, alberi, pali, cartelli e tanti spettatori assiepati ai bordi delle strade.

Talvolta pioggia e nebbia. Ma si corre comunque, anche nelle condizioni climatiche peggiori. Oggi questa gara – un rito, una sfida alla morte – viene disputata ancora, pur essendo stata espulsa dal circuito mondiale nel 1976 per l’incredibile numero di incidenti che la contraddistinguono: quelle strade hanno stroncato a partire dal 1907, l’anno della prima edizione, la vita di 250 piloti.

Ma Gilberto Parlotti non era un temerario o uno spaccone. Nei dieci giorni che avevano preceduto la gara aveva meticolosamente percorso e ripercorso il tracciato, cercando di memorizzare dettagli e insidie nascoste. Prima a bordo di un’automobile. Poi in sella a una potente “Ducati 900”, caricata a Bologna a bordo di un furgone e portata a Douglas, la principale località sull’isola di Man. A poche ore dal “via” della sua ultima gara Parlotti ripercorse in auto con Giacomo Agostini tutto il tracciato. In quel momento Agostini aveva già trionfato per nove volte su quelle strade. I suoi successi al Tourist Trophy si sarebbero fermati a quota dieci, perché dopo la morte di Parlotti, Agostini avrebbe declinato per sempre ogni invito e ogni sollecitazione a partecipare a quella gara fuori dal tempo e da ogni logica.

Il suo diniego ha innescato una rivoluzione nell’ambito delle competizioni motociclistiche e le ha cambiate profondamente. In primo luogo a livello di sicurezza dei piloti e del pubblico, poi nel rapporto con le case costruttrici, con i primi sponsor, le televisioni e la stampa scritta. Ma anche con il proprio corpo e la propria preparazione fisica e psicologica.

Parlotti aveva intuito da tempo che per guidare una moto non era sufficiente il talento, la predisposizione naturale. Serviva ben altro: un allenamento meticoloso in palestra, la cura di se stessi, l’allenamento, lo studio di nuove e più protettive tute in pelle, caschi, guanti e stivali. L’adozione di pneumatici adatti alla superficie del circuito, un’attenta messa a punto della moto – motore, sospensioni, erogazione della coppia, freni – congiunte a una ricerca della migliore posizione del pilota sul mezzo: sella, comandi sul manubrio, cambio. Come accade oggi per tutti coloro che partecipano ai Gran Premi su piste con ampie vie di fuga in caso di cadute.

All’inizio della sua carriera, quando aveva poco più di 18 anni, Gilberto aveva corso su moto raffazzonate, usate ogni giorno per andare al lavoro. Se gli pneumatici erano consunti, venivano “rinfrescati” artigianalmente per la gara con una sorta di scalpello che approfondiva le scanalature. Le tute erano di pelle nera, piene di toppe per le tante cadute; i guanti erano quelli sottili indossati dalle donne eleganti, i caschi della Cromwell proteggevano virtualmente solo la sommità del capo.

Alle gare si arrivava a bordo di camioncini o auto con le moto sul rimorchio. I furgoni attrezzati a officina mobile erano rari e rarissimi i camion con il “logo” della casa costruttrice esibito sulla carrozzeria: erano riservati ai rari piloti ufficiali, ingaggiati per qualche milione di lire dai “patron”: il conte Agusta o le famiglie Benelli e Morini. Questi piloti alloggiavano in buoni alberghi. Gli altri talvolta dormivano in “pensioni a ore” come accadde a Parlotti a Modena nel 1966 quando finì inconsapevolmente assieme al suo amico e poi manager Fulvio Sponza in una casa di appuntamenti mascherata da albergo.

Ma non basta. Tutti i piloti “privati”, Parlotti compreso, dovevano accontentarsi degli ingaggi e dei premi riservati a chi riusciva a salire sul podio. Poche lire perché la passione era tanta e i piloti si arrangiavano, correndo in tre classi diverse per far quadrare i conti; talvolta si ritiravano in quella in cui non avevano speranza di vittoria per svuotare nel serbatoio del furgone la benzina ricevuta dagli organizzatori. Tutto questo Gilberto Parlotti e Luigi Rinaudo, suo amico fraterno e compagno in tante gare, lo hanno provato sulla loro pelle.

Sacrifici e talvolta anche debiti in attesa che qualcosa li proiettasse verso il successo. Parlotti ci era riuscito, prima con la “Tomos”, poi nell’indimenticata gara di Abbazia sulla “Benelli 250 quattro cilindri” e su alcuni prototipi “Ducati” ed infine sulla “Morbidelli 125”. Era in testa al mondiale, il 9 giugno di 50 anni fa e volava verso la vittoria. —

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