Il “Giornale alleato” era sempre cauto nel nominare il fenomeno dei profughi

La stampa del Gma a Trieste seguiva con distacco il problema affrontato in sede Onu nel 1946
Luca G. Manenti

TRIESTE Il 25 gennaio 1946 il “Giornale alleato”, sottotitolato “Quotidiano d'informazioni a cura dell'A.i.s.”, ossia l'Allied Information Service, pubblicò un articolo riguardante una mostra organizzata a Milano dal Comitato Alta Italia per la Venezia Giulia e Zara.

L'Arengario della città meneghina era stato selezionato per ospitare quadri di pittori giuliani e dalmati dell'Otto e Novecento, mentre al comitato d'onore della manifestazione avrebbero partecipato, in rappresentanza di Trieste, Silvio Benco e Giani Stuparich. Fin qui si trattava di un semplice resoconto, ma nel prosieguo spuntava una frase degna di nota: “promossa pure dal Comitato Alta Italia per la Venezia Giulia e Zara, ma del tutto indipendente dalla prima, sarà tenuta a Milano una Mostra di artisti profughi giuliani e dalmati”. Era in assoluto la prima volta che l'organo a stampa dell'Ais, attivo da dieci mesi, riportava la dicitura completa di “profughi giuliani e dalmati”. La limitata attenzione riservata fino ad allora alla vicenda degli esuli e il linguaggio guardingo e calibrato utilizzato per raccontarla, scelte dettate dalle esigenze politiche del momento, rimasero la cifra essenziale del foglio anche nel periodo successivo.

L'articolo d'apertura del 30 gennaio diede conto dei problemi all'esame dei comitati dell'Onu riuniti a Londra, fra cui quello dei profughi. La questione fu affrontata dal consesso internazionale in termini generali, tuttavia per i giuliani non poterono non rivestire grande importanza le parole pronunciate nell'occasione dal delegato jugoslavo: “Molti di coloro che non possono essere rimpatriati sono elementi antidemocratici e anche criminali di guerra”. Egli suggerì di negare i diritti d'assistenza a chi ricusava di rientrare nel proprio paese. Alle orecchie degli italiani che avevano abbandonato le terre adriatiche la proposta dovette suonare dirompente.

Il delegato britannico vi si oppose con durezza, ottenendo l'approvazione della moglie di Roosevelt per gli Stati Uniti e dell'incaricato olandese, fermo nell'affermare che soltanto agli “sbandati” spettava decidere in libertà se fare ritorno ai luoghi d'origine. A sua opinione era inoltre necessario istituire una commissione che esaminasse il daffare e si mettesse in collegamento con le agenzie preposte a offrire aiuto agli sfollati, in modo da creare un'estesa rete di supporto.

Un articolo del 2 febbraio proseguì nel descrivere i lavori dell'Onu concernenti lo “scottante problema dei profughi”. Ad animare la discussione in seno al Comitato sociale e umanitario fu di nuovo l'emissario jugoslavo, che, appoggiato dal collega polacco, ribadì la sua contrarietà a considerare profugo chi si rifiutava di rimpatriare, stante che solo i criminali di guerra erano obbligati a percorrere questa via.

Estremo risalto venne dato all'intervento di Descosse, portavoce del Belgio, che distinse fra diverse categorie di profughi, ricordò l'onere collettivo di difendere il diritto d'asilo e auspicò da una parte che i criminali di guerra venissero puniti, dall'altra che non si abusasse di tale infamante qualifica.

La faccenda avrebbe dovuto essere risolta, concluse il belga, non “su un piano politico, ma su un piano umanitario”. Il fenomeno della profuganza, dunque, non era eluso dal “Giornale alleato”, ma osservato con distacco, nell'ampia cornice continentale, secondo una tecnica comunicativa che tollerava sì allusioni al caso giuliano, ma non indagini ad hoc foriere di polemiche.

E ciò, naturalmente, a meno che a parlarne non fossero i vertici governativi italiani, le cui opinioni costituivano dei punti di vista legittimi in mezzo a una moltitudine di punti di vista altrettanto legittimi, ed erano pertanto riproducibili senza il rischio che la testata apparisse pro o contro l'Italia nelle dispute territoriali che la opponevano alla Jugoslavia. Così, il 5 marzo venne ripresa l'esortazione fatta in conferenza stampa da De Gasperi a che la Commissione alleata si occupasse “anche della sorte degli italiani deportati dal Governi di Tito” e si interessasse a “tutta la Venezia Giulia”, isole, Fiume e Zara comprese.

Talvolta gli accenni al tema erano relegati nell'ultima riga di articoli in apparenza dedicati ad altro, come in quello del 24 aprile dal titolo “Un pranzo della Lega Nazionale all'Orfanotrofio S. Giuseppe”.

Le beneficiarie, vi si diceva, erano state “centocinquanta orfanelle” dell'istituto e “cinquanta poverelle” sangiacomine, “molte delle quali avevano persi i genitori a Zara o erano profughe dall'Istria”. Oppure era la cronaca nera ad aprire squarci su un dramma su cui c'era chi lucrava: il 26 aprile fu arrestato un quarantenne che, privo di autorizzazioni, riscuoteva elargizioni in favore dei profughi istriani; operazione che da febbraio gli aveva fruttato 30.000 lire.

Un senso di cauta ritrosia a entrare nello specifico misto a rispettoso pudore informava, nel passaggio riservato all'esodo, il comunicato diramato dalla Curia vescovile di Trieste e di Capodistria campeggiante in seconda pagina nel numero del 2 maggio: “Molte persone hanno abbandonato le loro città ed i loro villaggi e vagano esuli in mezzo a disagi, lontani dalle loro case”. La speranza dei prelati era che “sentimenti di sincera fraternità, di schietta tolleranza, di rispetto delle opinioni e delle aspirazioni” potessero finalmente regnare, permettendo “il ritorno ai loro focolari” di questi “figli spirituali”.

Il 9 giugno un trafiletto stringato notificò l'arrivo a Trieste, tramite motonave, di 18 profughi da Pola, che vennero “assistiti dagli agenti del molo della Pescheria” e accompagnati al Silos: informazione nuda e cruda, senza commenti in grado d'innescare recriminazioni da parte di chicchessia.

Eppure, il marzo precedente, in concomitanza con la visita della commissione alleata incaricata di definire i confini, si era svolto nella città dell'Istria un corteo di sostegno organizzato dal proletariato di lingua italiana, che, all'inizio propenso ad accettare l'annessione alla Jugoslavia, aveva poi mutato opinione.

L'evento aveva contribuito, in piccola ma non insignificante misura, a rendere più tese le relazioni internazionali, e proprio per questo il foglio, pur avendone la possibilità, non vi fece il minimo riferimento.

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