Esodo, il varo della motobarca Speranza Adriatica portò lavoro ai pescatori profughi di Fertilia

“Il Giornale di Trieste” seguiva le iniziative di ricollocamento in tutta Italia dei giuliano dalmati

Luca G. Manenti

TRIESTE “Le ultime notizie”, edizione serale del “Giornale di Trieste”, il 28 aprile 1952 pubblicò un lungo articolo sugli esuli trasferiti in Sardegna, a Fertilia, località estremamente adatta a ospitarli, sia per la “composizione geologica” dei terreni e per il tipo di mare e di pesca che vi si esercitava, molto simili a quelli istriani, sia per la densità rarefatta della popolazione, che consentiva, senza problemi eccessivi, l'insediamento di consistenti gruppi di istriani.

Il tema venne ripreso il 1° agosto, con l'annuncio del varo del motopeschereccio Speranza Adriatica, appositamente costruito dal cantiere San Giusto per i pescatori profughi giuliani iscritti alla cooperativa Nazario Sauro di Fertilia. “Con il varo della Speranza Adriatica si è completato il programma che l'Ente giuliano autonomo di Sardegna, con l'appoggio morale e materiale della Presidenza del Consiglio e con l'ausilio tecnico del Ministero della Marina Mercantile, ha fatto per dare i mezzi di lavoro ai nostri fratelli pescatori che risiedono a Fertilia”.

Il foglio, tacendo sui retroscena, edulcorava parzialmente la realtà. Va ricordato infatti che, in mancanza di un vero e proprio piano nazionale per la sistemazione dei profughi usciti dai campi di raccolta, furono per un tratto i comitati dei rifugiati in Italia e l'Associazione Venezia Giulia e Zara a provvedere agli alloggi, al lavoro, alla sistemazione dei profughi nella penisola. Solo in un secondo tempo le iniziative pro Fertilia ottennero il sostegno governativo.

È alla luce di ciò che andrebbe valutata la presentazione da parte dell'Opera per l'assistenza ai profughi giuliani e dalmati alla presidenza del Consiglio di un rapporto concernente il villaggio giuliano dell'E 42 a Roma, ospitante 180 famiglie.

Ne diede conto lo stesso giornale il 23 agosto. Dei fondi erano stati impiegati per costruire una falegnameria, un'officina meccanica, un impianto per la lavorazione delle carni, bar, negozi, ristoranti. L'Opera non si era limitata “ad assicurare i mezzi occorrenti per l'inizio della attività”, ma era anche intervenuta “presso enti e ministeri per assicurare le prime commesse di lavoro”, per un totale di cinquanta milioni nel solo anno 1951.

Le notizie tecniche riguardanti le condizioni materiali degli esuli si alternavano ad altre veicolate in modo più passionale, in cui si faceva uso di toni e linguaggi battaglieri. “L'esodo spontaneo di 230 mila persone davanti alla calata titina è un marchio che non si cancella. È più che legittima la scelta di Trieste quale patria di adozione, mentre bosniaci e macedoni si insediano nell'Istria italianissima”: questo l'occhiello di un articolo uscito il 25 gennaio 1953 sul “Giornale di Trieste”.

Il testo rispondeva a quei “propagandisti titini”, mascherati “dietro l'etichetta dell'indipendentismo, sempre pronti a servire i loro padroni di Belgrado”, che in un proprio organo a stampa avevano travisato “dati, cifre e situazioni” sull'esodo “allo scopo di esaltare il regime titino vigente nelle terre italiane passate alla Jugoslavia, ed allo scopo di scaricare ogni responsabilità inerente al problema dei profughi sulle spalle dell'Italia che li ha amorevolmente accolti, anziché sulla Jugoslavia, che col suo regime di terrore poliziesco comunista e sciovinista, li ha fatti scappare”.

La guerra di numeri e statistiche sulle dimensioni dell'esodo continuò l'8 febbraio in un testo che, dall'angolatura italiana, riassunse le dinamiche della fuoruscitismo associandolo alle foibe. Di fronte all'ondata crescente di esuli, che includeva donne, bambini e anziani che non potevano in nessun modo essere tacciati di collaborazionismo, “i propagandisti titini si sentirono come presi da panico”, poiché l'intensa emorragia di persone minava l'immagine del nuovo regime e insieme “dimostrava l'italianità – quell'italianità così spesso e vanamente contestata – dell'Istria e in genere di tutta la Venezia Giulia”. Il deflusso sarebbe cominciato alla fine del 1943, quando “i giuliani prima – e il mondo molto dopo – appresero a loro spese lo spaventoso significato di una parola sino allora sconosciuta. La parola è questa: foibe”.

Il quotidiano continuò a riportare, con cadenza più o meno settimanale, l'indicazione di iniziative varie in favore degli istriani che lasciavano i luoghi d'origine o di ricorrenze che li riguardavano, dall'assemblea degli esuli di Parenzo alla messa riservata a quelli di Rovigno. Così come abbastanza di frequente uscivano, in occasione di novità legislative, articoli che informavano su come fare domanda per ottenere gli indennizzi per i beni rimasti in Jugoslavia, per avere contributi, sostegni, o per vedersi riconosciuto qualche titolo, mentre sempre più reiterate erano le segnalazioni sulla realizzazione di abitazioni riservate agli esuli.

“Sta sorgendo a Chiarbola la borgata istriano-dalmata”, avvisava il foglio il 2 marzo 1953. A interessarsi al caso era il segretario generale dell'Opera per l'assistenza ai profughi giuliani e dalmati, che aveva effettuato un sopralluogo laddove sarebbero sorti 122 alloggi, con diverse stanze e servizi, grazie a “un contributo di 250 milioni concesso dal Tesoro italiano sul bilancio del Territorio di Trieste con una integrazione di 50 milioni messa a disposizione dalla sede centrale dell'Opera”. Il programma edilizio a S. Croce, Chiarbola, Opicina e Duino occupava una colonna in seconda pagina il 22 maggio, che di nuovo informava su lotti, enti coinvolti e denari destinati.

Né si tacevano eventuali problemi relativi all'assegnazione delle case. Il 14 luglio 1953 si parlò di “Risentimento legittimo” di alcuni esuli che abitavano il Silos di Trieste, esclusi dalla lista di coloro che avrebbero potuto occupare i nuovi caseggiati in via Flavia, essendo già potenziali destinatari di quelli del rione di Chiarbola. “Tale decisione ha suscitato ovviamente delusione e rammarico fra gli interessati, ritenendola – e a ragione – una ingiustizia. Non possiamo infatti ammettere che la commissione giudichi un eccessivo privilegio la duplice speranza che si offriva agli esuli del Silos. A meno che privilegio non si consideri l'alloggiamento al Silos”.

La sardonica chiosa finale lanciava un messaggio? Di certo il “Giornale di Trieste” difendeva a spada tratta l'operato governativo a favore degli esuli, non lesinando di quando in quando delle leggere stoccate affinché l'attenzione delle autorità nei loro confronti non venisse mai meno.

(7 - Segue. Le altre puntate sono state pubblicate il 3 settembre, 5 e 24 ottobre, 7, 16 e 22 novembre)

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