La Sala Tripcovich? Nessun pregio, anzi, cela la quinta del Porto vecchio

Sono deboli le motivazioni storiche e artistiche per salvarla mentre l’ingresso allo scalo ha una sua notevole valenza

TRIESTE Dopo il recente blocco della demolizione della sala Tripcovich, voluto dal ministro Franceschini, le cui motivazioni aspettiamo di conoscere, il dibattito su questo edificio, sito proprio davanti alla Stazione Centrale, sta imperversando a Trieste (lo si vede dalla marea di interventi in rete). Ed è un bene, indubbiamente, perché coinvolge un’opinione pubblica attenta alle cose progettuali della città. Sicuramente più attenta di quanto non lo fosse vent’anni fa, di fronte a trasformazioni altrettanto importanti della piazza Goldoni o della piazza Vittorio Veneto. Ciò premesso, è bene entrare nel merito, e fare alcune considerazioni.

Il punto di partenza del nostro ragionamento riguarda il rapporto fra un bene culturale e la sua storia. Infatti, va da sé che alla base delle scelte di conservazione di un edificio o di un locale queste due componenti debbono interagire. Questo è (ma non sempre) il criterio su cui si basano i giudizi della Sovrintendenza, che nel fornire le ragioni e l’opportunità di una tutela artistica non può basarsi soltanto su uno di questi due parametri. Un esempio per tutti, il più recente: il vincolo sulla Pasticceria Pirona, da poco salvata, che non era stata vincolata dalla Sovrintendenza perché si era basata solo sull’aspetto artistico (gli arredi d’inizio Novecento, Liberty non erano stati giudicati degni) dimenticando quello storico (cento anni di attività e un aggancio letterario con uno dei massimi scrittori del XX secolo, James Joyce). Bene, è un dato di fatto, pertanto, che quel che non è supplito dalla rilevanza artistica può benissimo esserlo dalla rilevanza storica.

Ora applichiamo questo concetto alla Tripcovich, e ragioniamone serenamente. L’edificio è stato progettato da due importanti architetti nel 1931, Baldi e Nordio, con una precisa funzione: essere un’autorimessa per le corriere. Collocata proprio lì perché accanto alla Stazione, in una fondamentale sinergia di mezzi di trasporto (treno e prosecuzione su gomma del viaggio). Infatti, la sua struttura potremmo definirla “funzionale”, con cinque porte di accesso, una affiancata all’altra. Fu inaugurata nel 1934 e svolse egregiamente questa funzione per parecchi anni. Nella sua forma originaria, la nostra stazione non presentava particolari segni di distinzione, né era stata voluta come forma monumentale che potesse richiamare, per esempio, la struttura eclettica, marcata nel contesto Liberty, della grande quinta del Porto (ora Porto vecchio) che le stava alle spalle. Certo, ciò non era nell’intenzione di Baldi e Nordio, dato che in quel periodo la città si andava riqualificando (non tutti sono d’accordo su questo termine) in senso moderno, con la sostituzione di una fetta della Città vecchia con un vasto complesso in stile fascista (la definizione appartiene alla storia dell’arte e può ben collegarsi, per esempio, al “nuovo” mercato coperto di Largo Barriera, edificio di sicuro pregio). Dunque la “nuova” stazione doveva essere prima di tutto adatta allo scopo, senza preoccupazioni ornamentali.

Col passare degli anni l’edificio è caduto in disuso e il suo recupero, nel 1992, è stato legato a una impellente necessità: supplire con i suoi spazi al blocco del Teatro Verdi, in fase di ristrutturazione. Per questa ragione si pensò a un recupero ad hoc, e il progetto della sua trasformazione in teatro fu affidato ad Andrea Viotti (lavori a cura di Dino Tamburini). Ne risultò una sala teatrale apprezzabile, per un totale di 934 posti, con uno spazio adeguato per biglietterie e servizi, ma non adatto per il complesso dei camerini. La sala fu in gran parte donata da Raffaello de Banfield, che l’intestò alla sua compagnia armatoriale, la Tripcovich. In seguito, con la ripresa del Verdi, fu usata per eventi musicali e teatrali, ma la cosa non poteva durare. Con le nuove norme di sicurezza per i teatri la Tripcovich, che aveva usufruito di deroghe eccezionali date le contingenze, risultò inutilizzabile, a meno di subire interventi costosissimi.

Ora veniamo ai dati oggettivi. A parte la trasformazione della facciata in una sorta di quinta posticcia color rosa (di dubbio gusto), la stazione delle corriere rimase all’esterno quel che era. Un volume indefinito, con una sola modanatura interessante: il timpano a curvatura su due piedistalli laterali. Un po’ poco per decretarne il valore artistico. E allora veniamo al secondo parametro di cui si parlava: il suo valore storico. Certo, è un esempio di struttura legata al mondo dei trasporti (un po’ poco però, anche in questo caso). Deboli sono dunque le motivazioni per impedirne l’abbattimento. E attenzione, qui stiamo facendo un ragionamento che prescinde dai problemi finanziari (immensi) legati al suo ripristino come teatro. Qui stiamo parlando di Storia dell’arte (una dimensione che la Sovrintendenza ha analizzato, dando il suo benestare all’abbattimento).

E proprio perché parliamo “solo” di Storia dell’arte, entriamo nel merito della quinta del Porto Vecchio che questo edificio nasconde alla vista, la vista di chi, arrivando a Trieste dalla stazione, se la trova davanti. Questa quinta è assai apprezzabile dal punto di vista architettonico: omogenea, con i suoi volumi articolati, con i fornici e le finestrature aggraziate. E non a caso alludo a una “quinta” teatrale, il cui valore è storico e artistico insieme. A precluderne la vista attualmente c’è un edificio “funzionale” alle corriere negli anni Trenta. Tecnicamente si tratta d’una “superfetazione”, cioè qualcosa che si è sovrapposta in seguito. È qualcosa che ha migliorato quello scenario? I dubbi non mancano di certo.


 

Riproduzione riservata © Il Piccolo