Vita di Vittorio Benussi, il triestino che inventò la macchina della verità
TRIESTE È un triestino l’inventore della macchina della verità. È stato infatti Vittorio Benussi (Trieste 1878-Padova 1927), uno dei pionieri della psicologia, maestro di Cesare Musatti, morto suicida vittima di un profondo stato depressivo, a studiare e applicare per primo il metodo dei “sintomi respiratori” alla psicologia della testimonianza e alla psicologia criminale, migliorando gli esperimenti di Angelo Mosso con il suo pletismografo. Figura straordinaria quella di Vittorio Benussi, al quale Mauro Antonelli, docente di storia della psicologia all’Università di Milano-Bicocca, ha appena dedicato l’ampia monografia “Vittorio Benussi in The History of Psychology – New Ideas of a Century Ago” (Springer, pagg. 394, euro 93,59). Il volume, in inglese, ricostruisce le linee fondamentali della ricerca di Vittorio Benussi, dai suoi studi e dal ruolo di docente all’Università di Graz, dal 1902 al 1918, fino al periodo dell’insegnamento a Padova, dal 1919 al 1927. Dopo un’ampia disamina sui pionieri della psicologia in Germania e in Austria, e in particolare sulla figura del filosofo Alexius Meinong, Antonelli ripercorre la vita e l’opera di Benussi dimostrando come il suo lavoro sia ancora straordinariamente attuale, specie nelle aree della psicologia cognitiva e delle scienze cognitive.
Benussi fu un geniale precursore con le sue ricerche nel campo della percezione visiva e tattile, della percezione del tempo, della psicologia forense, dell’ipnosi e della suggestione, dell’inconscio e delle emozioni. I suoi scritti, nota Antonelli, sono impressionanti per la loro originalità, per l’energia, per la più varia gamma di approcci, per le abilità sperimentali, la ricchezza di risultati e la qualità delle discussioni teoriche. Eppure, tranne che all’Università di Padova, dove è conservato il suo archivio, è una figura quasi dimenticata fuori dagli ambiti accademici. Alzi la mano chi, a Trieste, sa chi era Vittorio Benussi.
Nato dunque a Trieste il 17 gennaio 1878, figlio dell’istriano Bernardo Benussi, storico e insegnante, come ricorda Verena Zudini nel suo libro “La misura della menzogna – Vittorio Benussi e le origini della psicologia della testimonianza” (Edizioni Eut, 2011) Benussi “di Trieste avrebbe portato per sempre nella sua personalità il carattere indefinito”.
Educato dal padre a sentimenti irredentisti, nel 1896 Benussi si trasferì a Graz per iscriversi alla facoltà di filosofia, dove trovò il primo e unico Laboratorio di psicologia di tutto l’impero asburgico. Qui lo studente triestino conobbe Mainong, di cui fu subito brillante allievo. Tanto che già nel 1904, al quinto congresso internazionale di psicologia a Roma, il giovane psicologo “si trova al centro dell’attenzione di filosofi e cultori della nascente psicologia italiana”. Sempre a Graz, nel 1907 Benussi sposa Wilhelmine Liel de Bernsett, anche lei discepola della scuola di Meinong.
Il giovane triestino è uno studioso infaticabile e geniale. Nei laboratori dell’università progetta e fa costruire egli stesso numerosi strumenti e apparecchi per la verifica scientifica delle teorie. Detta in modo banale, Benussi intende “misurare la menzogna”, studiare quali effetti provoca nell’essere umano la “psicologia della testimonianza”. È così che migliora e mette a punto il “lie detector”, la macchina della verità, basata essenzialmente sulle alterazioni della respirazione.
Tutto sembra portare Benussi a fulgida carriera, ma lo scoppio della Grande guerra, la dissoluzione dell’impero asburgico e il passaggio di Trieste all’Italia, provocheranno in lui un vero e proprio trauma. Educato in famiglia a essere fervido irredentista, ma cresciuto nella cultura, nella lingua e nell’anima tedesca, Benussi vive il conflitto e il suo esito con una profonda spaccatura interna. Nel 1918, improvvisamente, Benussi torna a Trieste e prende la cittadinanza italiana. Nella primavera del 1919 viene chiamato a ricoprire all’Università di Padova la neoistituita cattedra di psicologia sperimentale.
Ma il distacco da Graz non è indolore: “a Padova Benussi si vede estraneo in un contesto culturale che non sente suo e deve anche fare fronte, nella gestione della cattedra (...), a problemi di carattere organizzativo”. Nonostante ciò lo studioso triestino è coadiuvato da un gruppo di validi collaboratori, tra i quali Cesare Musatti e Silvia De Marchi, la prima donna in Italia a laurearsi con una tesi in psicologia sperimentale. Stringe poi amicizia con Edoardo Weiss, e inizia una serie di ricerche “di psichica reale” che vanno “dagli studi sulle allucinazioni positive e negative, a quelle sulle perturbazioni della percezione”. Ma intanto è la sua psiche ad andare in pezzi. Benussi soffre di una forte sindrome maniaco-depressiva della quale è perfettamente consapevole, e sulla quale lascia lucidissime testimonianze scritte. Ma la consapevolezza non basta, e a nulla valgono le cure dei suoi colleghi e amici: il 24 novembre 1927, a soli 49 anni, Vittorio Benussi muore suicida bevendo un tè al cianuro.
Sarà proprio Musatti a scoprire il corpo, decidendo però di non dire nulla del suicidio: il suo maestro, è la versione ufficiale, è morto per un malore. Il padre della psicanalisi italiana dirà la verità solo negli anni Ottanta, spiegando di aver taciuto allora per paura di possibili ripercussioni negative sulla psicologia in Italia, all’epoca stretta in una situazione di estrema fragilità e precarietà accademica, e sottoposta a forti pressioni sia da parte del regime fascista, con le sue istanze gentiliane, che della chiesa cattolica. Chissà come Benussi avrebbe misurato la menzogna del suo migliore allievo. —
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