Viaggio in Istria: millenario mimetismo nella terra di nessuno che chiamiamo nostra

Il reportage di Paolo Rumiz ripubblicato da Bottega Errante. Lo presenterà in video a Pordenonelegge il 16 settembre
Paolo Rumiz in cammino. Bottega Errante ripubblica “Vento di terra"
Paolo Rumiz in cammino. Bottega Errante ripubblica “Vento di terra"

Uscirà mercoledì 2 settembre la riedizione dello storico libro di Paolo Rumiz “Vento di terra”, che racconta l’Istria e Fiume fra Balcani e Mediterraneo: a 26 anni dalla prima pubblicazione, con una introduzione originale dell’autore lo riedita adesso Bottega Errante e Rumiz lo presenterà in collegamento video a Pordenonelegge mercoledì 16 settembre (spazio S. Giorgio, ore 17), in dialogo con Angelo Floramo, con diretta streaming sul canale youtube e sulla pagina facebook di pordenonelegge. Torna così in libreria un reportage che racconta l’Istria, Fiume, un confine ancora aspro, e nasce dalla necessità di ricordare che cos’è stato il laboratorio Istria trent’anni fa, per mettere in campo un confronto con quello che è ora. Nell’anno di Fiume città europea della cultura, Rumiz ci ripropone un libro poetico e insieme politico, perchè ripercorrere la storia della terra d'Istria subito dopo il conflitto nella ex Jugoslavia significa capire come quel pezzo di terra sia stato, e sia tuttora, laboratorio fondamentale per l’Europa.



Chiudo gli occhi e ne sento l’odore. Salvia, santoreggia. Fichi. Bietole all’aglio. Brughiera. Salsedine. Istria. Inconfondibile. Refrattaria all’idea di nazione, che le ha portato solo sventura. Terra di mezzo. Spazio di incontro. Le hanno inflitto una guerra. L’hanno divisa con un nuovo confine e crocefissa con reticolati. L’hanno fraintesa in tutti i modi. Molto è cambiato dall’uscita di questo libro. Ma l’Istria eterna non molla. Il profumo rimane. L’Istria è il suo profumo. L’Istria è una tavola apparecchiata alla buona, una fetta di prosciutto salato, un’oliva e un bicchiere di malvasia. Ho conosciuto un vecchio che ne sapeva riconoscere ogni podere, semplicemente assaggiandone il vino.

Istria, il primo promontorio da doppiare a vela sulla strada della Dalmazia e delle isole greche. Ultima penisola del Mediterraneo, per chi viene dal mare aperto. Inizio e fine. Balaustra e preludio. Periodicamente la cerco, e la voglia viene così all’improvviso, quando torna il vento di terra giù dalle steppe degli istro-rumeni. A Trieste capita di partire anche a piedi, con una mappa in tasca, in cerca del Sud, verso il Capo che fronteggia l’Arcipelago.

Una settimana a piedi, solo per un tuffo dall’ultimo faraglione e per lavarsi di dosso la polvere del viaggio Farsi indicare una locanda, e trovarla. Attraversare una rassicurante trigonometria di campanili. Istria come spazio misurabile, terra di uomini. Europa. Salire e poi scendere sull’interminabile crinale del Monte Maggiore e vedere dall’alto le montagne diventare isole. Navigare. Trovare un contadino tra una vigna e un campo di zucche che ti regala un grappolo e ti dice «Va’ con dio», guardandoti andar via.

Traghettare verso una taverna, che qui si chiama konoba, incontrare un pescatore che vive in barca e comprargli uno scorfano, che qui si chiama scarpena. Portare il pesce in cucina, farselo cucinare. Mangiare sotto una pergola. Ripartire. Spaccarsi le caviglie su un campo solcato. Lasciare che il fracasso del turismo si spenga, riconquistare lo spazio, assorbirne i silenzi. Raccattare parole e conchiglie sulla battigia. Qui si parla dell’Istria durante la guerra dei Balcani. Si parla di una terra rimasta ai margini del massacro. Ma solo in apparenza.

Il vero viaggio di allora non fu in ciò che la guerra trasformava ma nella capacità dell’Istria di resistere. Il suo millenario mimetismo. Il suo non essere di nessuno. Né italiana, né slovena, né croata. Il suo essere “nostra”. Nostra nel senso latino del termine. Terra di coloro che la adottano, la abitano, la coltivano, la vivono. Concetto ostico per chi la guarda da lontano, nel tempo dei sovranismi. Roma è lontana. Come Zagabria e Lubiana. “Gente nostra” si dice dalle mie parti, e la lingua e il passaporto non c’entrano. È qualcosa che si intuisce dalle sguardo, dall’andatura. La vedo dal mio balcone triestino. La chiesa di Pirano. Le vele che la sfiorano. Guardo tutto questo e mi verso un bicchiere di vino. Quel godimento, quel ringraziamento alla vita, me l’ha insegnato un rabbino, è preghiera. Santissima preghiera. Buon viaggio. —


 

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