Venticinque anni dopo gli Accordi di Dayton il nazionalismo etnico non dà pace alla Bosnia

Il 21 novembre 1995 veniva sancita la fine della guerra, un quarto di secolo dopo l’assetto politico amministrativo resta precario e pericoloso 
Soldati italiani durante la guerra in Bosnia nel 1994. Oggi. 21 novembre 2020, ricorrono i venticinque anni dagli Accordi di Dayton che sancirono la fine del sanguinoso conflitto (Foto Archivio Agf)
Soldati italiani durante la guerra in Bosnia nel 1994. Oggi. 21 novembre 2020, ricorrono i venticinque anni dagli Accordi di Dayton che sancirono la fine del sanguinoso conflitto (Foto Archivio Agf)

Oggi, 21 novembre, cade l’anniversario degli accordi di Dayton che nel 1995 posero fine alla guerra in Bosnia-Erzegovina ma che 25 anni dopo non hanno riconciliato il paese anzi per certi versi sono all’origine di nuove tensioni. Gli accordi riconoscevano la Bosnia-Erzegovina come stato sovrano costituito da due entità, una serba, la Republika Srpska, e una bosniaco-croata, la Federazione, separate da una linea di demarcazione che, per evitare ogni pretesa nazionalista, fu definita come semplice ripartizione amministrativa.

Ma le grandi autonomie concesse alle due entità a scapito del potere centrale, nel corso degli anni hanno scavato profonde divisioni che ne hanno fatto due stati nello stato. Lasciando alla Federazione e alla Republika Srpska competenze di polizia, di sicurezza, di istruzione e perfino di politica estera, si è sancita un’appartenenza etnica prima di quella nazionale, si è istigato lo sviluppo di una narrazione diversa della storia e della memoria che ha impedito la riconciliazione e lo sviluppo di coscienza nazionale.

La nomina di una presidenza a tre, composta da un bosniaco e un croato eletti dalla Federazione, e da un serbo eletto dalla Republika Srpska, non ha fatto altro che ripercuotere la separazione anche a livello nazionale. A complicare ulteriormente le cose viene l’organo della Corte Costituzionale, incaricata di risolvere le dispute tra le entità e composta da nove giudici: sei bosniaci, nominati da Federazione e Republika Srpska e tre giudici internazionali, indicati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Proprio contro questo organo si è scagliato Milorad Dodik, membro serbo della presidenza, chiedendo che i tre giudici internazionali venissero estromessi e in questo appoggiato dalla sua controparte nazionalista croato-bosniaca.

Sbarazzarsi della presenza internazionale nella Corte costituzionale vuol dire avere mano libera per interpretare la Costituzione in senso etnico e trasformare di fatto i confini amministrativi in confini politici. Proprio quello a cui sembra mirare Dodik che da tempo ormai parla di secessione e invoca un “Republika Srpska Exit” dalla Bosnia-Erzegovina. Una prospettiva che allontana sempre di più la Bosnia-Erzegovina dall’adesione all’Unione europea e che rischia di portare il paese su strade pericolose.

Alla fine della guerra, l’uomo forte della Republika Srpska era stato visto dalla comunità internazionale come un interlocutore rassicurante e solido oppositore dei movimenti nazionalisti serbi. Ma dopo aver vinto le elezioni che gli hanno assicurato importanti aiuti economici occidentali, Dodik sembra aver virato di rotta e ricalca ora le posizioni nazionaliste dei suoi antichi antagonisti. Senza vedere il baratro in cui sta cadendo il paese, dilaniato dalla disputa interetnica e afflitto da una forte disoccupazione e da un esodo giovanile di massa.

Bobik è nato a Banja Luka nel 1959 e appartiene all’ultima generazione cresciuta nella Jugoslavia di Tito. Nel 2018, pochi giorni prima che venisse nominato alla presidenza della Bosnia-Erzegovina, un altro suo compatriota jugoslavo moriva nell’oblio a Banja Luka. Marian Beneš, il più grande pugile jugoslavo di tutti i tempi, per diversi anni campione della European Boxing Union, era nato a Belgrado da madre serba e padre croato. Figlio della Jugoslavia titina, da bambino poté imparare a suonare il pianoforte ma il suo destino era il ring e vi salì per la prima volta a 10 anni, iniziando così la sua carriera di pugile. Nel 1973 fu premiato da Tito miglior atleta dell’anno e nel 1976 partecipò alle Olimpiadi di Montreal tenendo alti i colori della Jugoslavia.

Per le molte ferite ricevute scese dal ring nel 1983, ma venne arruolato con i serbi nelle guerre jugoslave assieme a suo fratello che morì sul campo di battaglia. Dopo la guerra tornò a vivere a Banja Luka. Ma nella capitale della Republika Srpska bisognava dichiararsi serbi o andarsene.

Beneš, che era forse l’ultimo jugoslavo, si ostinò a pretendersi figlio di quel paese che non esisteva più e rifiutò un’appartenenza che non era la sua. Fu massacrato di botte da una torma di fanatici e dovette andarsene dalla città lasciando tutti i suoi beni. Poté tornarvi solo nel 1996 e lì visse quasi in miseria fino alla morte. Chissà se Dodik e i suoi compari conoscono la storia di Beneš. Chissà se si rendono conto che solo nell’accettazione delle differenze e nella diluizione dell’appartenenza etnica in un’appartenenza più ampia, fatta di principi e non di sangue, può esistere una Bosnia davvero pacificata. —

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