Un soldato di Cesare troppo curioso perse l’elmo nella Grotta delle Mosche

I magazzini del Museo Winckelmann. Foto Andrea Lasorte
I magazzini del Museo Winckelmann. Foto Andrea Lasorte

TRIESTE Vasi, oggetti votivi e cocci venuti alla luce negli scavi a Caporetto sono tutti accuratamente avvolti in fogli di giornale. Si tratta di numeri del Piccolo del 1928: riportano titoli a grandi lettere incentrati sulla vicenda della Tenda Rossa, la tragica esplorazione al Polo Nord del dirigibile Italia con a capo il generale Umberto Nobile è la notizia da prima pagina in quel periodo. Ci troviamo in uno dei depositi del Civico Museo d'Antichità Winckelmann sul colle di San Giusto: le collezioni conservate qui e nell'attiguo Orto Lapidario sono le testimonianze più antiche della storia di Trieste e del territorio circostante, da Aquileia al Carso, dall'Isontino all'Istria. I reperti di Caporetto sono stati imballati da Carlo Marchesetti (1850-1926), noto per aver diretto il Museo di Storia Naturale ma importante anche per aver iniziato la ricerca preistorica nella regione. Scartare gli oggetti da lui rinvenuti è come ritrovarsi a scavare più di un secolo fa tra le grotte e i castellieri per esplorare l'archeologia locale, racconta Marzia Vidulli Torlo, studiosa e conservatrice del museo.

Alcune sale sono state di recente riordinate per esporre l'enorme mole di oggetti lasciata da Marchesetti, tutti materiali prodotti dall'uomo. Nella sala dedicata alla Grotta dell'Orso disegni, grafici e reperti riproducono l'ambiente naturale: l'uomo viveva in superficie e molti animali nelle caverne. L'allestimento stratigrafico racconta le varie epoche: manca il paleolitico, presente solo nei resti animali, ci sono il mesolitico, il neolitico e l'età del bronzo, mentre l'età del ferro è assente perché ai quei tempi l'uomo si spostò a vivere nei castellieri, e infine c'è l'epoca romana quando vengono riutilizzati alcuni siti come la grotta del Mitreo. Spuntano alcuni vecchi cartoni in cui Marchesetti attaccava i reperti, come i cocciacci raccolti nei castellieri, e il vecchio allestimento è documentato in una serie di fotografie. «Il Museo di Antichità - spiega Marzia Vidulli - come quello di Storia Naturale era collocato in origine nel Palazzo Biserini in piazza Hortis e sale qui a San Giusto nel 1925 quando la grande sala al piano terra viene dedicata a Marchesetti e i suoi materiali vengono esposti come stavano». La corrispondenza dell'archeologo e botanico triestino presenta lettere intercorse con colleghi illustri come il grande Heinrich Schliemann, e gli scambi prevedevano anche il reciproco invio di materiali da una parte all'altra d'Europa.

Una delle novità espositive è la Grotta delle Mosche, esplorata nel 1912 e allestita proprio come se ci trovassimo all'interno della cavità carsica verticale, una foiba profonda cinquanta metri: nelle teche sono sistemati gli oggetti che l'uomo gettava nella fossa a fini votivi, cioè armi di bronzo spezzate o fuse; in cima a questo cumulo è stato trovato un elmo più recente, di epoca cesariana, ammaccato, usato da un ausiliario come indica l'iscrizione sulla nuca. Il copricapo forse è caduto dalla testa di un soldato curioso di guardare dentro alla voragine, un’ipotesi basata sul fatto che non c’è traccia dello scheletro. Sul soffitto della sala un pannello luminoso trompe-l’oeil ci fa credere di trovarci sottoterra dato che mostra, in alto, il buco da cui si vede il cielo.

Lo scricchiolio dei vecchi pavimenti in legno segnala ai visitatori il passaggio alle zone del museo non ancora restaurate: ecco le sale dei tre principali castellieri, Monte Grisa, Cattinara e Montebello, che essendo state zone abitate restituiscono cocci e oggetti usati e spezzati a differenza delle tombe. Di prossima realizzazione sarà la sala di San Canziano che riproporrà l’ambiente delle grotte carsiche con un’installazione sonora che restituirà il movimento dell’acqua del Timavo. Per il momento in una nicchia è visibile un altro elmo, più antico, del V secolo a. C., caduto con il proprietario nel fiume dal momento che il corpo dell’uomo ha fatto un viaggio lungo nella grotta. Marchesetti recuperò le spettacolari ambre del Baltico (IV secolo a. C.) e gli oggetti in bronzo trovati in un buco nella terra vicino al castelliere oggi in Slovenia: in questo caso, non essendoci resti umani e non essendo una sepoltura, potrebbe trattarsi di un ripostiglio in cui la popolazione ha conservato i gioielli, forse il tesoro di una signora nascosto in un periodo di pericolo. Il percorso di preistoria locale finisce con San Servolo e la sua doppia necropoli con materiali autoctoni e autoctoni romanizzati che restituisce monete e oggetti di vetro e di ceramica. «Stiamo digitalizzando tutti i documenti cartacei degli scavi», ci dice Marzia Vidulli.

Mentre il piano inferiore del museo ospita le collezioni egizie, salendo dove una volta c’erano gli uffici si incontrano le sale dedicate alla scrittura nell’antichità, alle ceramiche greche provenienti in particolare da Cipro con cui Trieste intratteneva fitti traffici commerciali, ai curiosi oggetti della civiltà etrusca. Il simbolo del museo è lo splendido rhyton d’argento, il vaso da libagioni a forma di testa di cervo proveniente dalle colonie greche sul Mar Nero: di tale fattura ce ne sono quattro al mondo e questo conservato a Trieste raffigura, per un caso, il dio Borea. (4 - Continua)
 

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