Trieste, quando nel 1887 si pensava di abbattere il campanile della cattedrale di San Giusto

Un volume con gli atti del convegno sulla conservazione dei monumenti a Trieste in Istria e in Dalmazia ricorda la storia di un progetto che poi non fu realizzato  
La cattedrale di San Giusto
La cattedrale di San Giusto

TRIESTE Se nel 1887 fosse andato in porto il piano di ristrutturazione della Cattedrale di San Giusto, oggi vedremmo l’antica basilica di Trieste intitolata al patrono in modo diverso. Per esempio con la facciata “liberata” e il campanile arretrato.

O addirittura con la facciata intera e un campanile nuovo di zecca - dopo aver buttato giù il vecchio - sulla destra. Per fortuna non se ne fece niente, e il perché è raccontato in uno dei saggi raccolti nel volume “La conservazione dei monumenti a Trieste, in Istria e in Dalmazia” (1850 – 1950)” (Edizioni Forum, pagg. 257, euro 24), curato da Luca Caburlotto, soprintendente archivistico per il Fvg del MiBact, da Rossella Fabiani, storico dell’arte, e da Giuseppina Perusini, docente di Storia del restauro e tecniche artistiche al Dipartimento Studi umanistici e del patrimonio culturale e direttrice della Scuola di specializzazione in Beni storico-artistici dell’Ateneo friulano.

Il convegno puntò l’attenzione degli studiosi intervenuti su un “confine mobile”, come quello tra Italia e Slovenia e tra questo paese e la Croazia, che ha comportato da più di un secolo numerose variabili sotto il profilo storico e geografico, ma anche sotto quello della gestione della conservazione dei beni culturali. Tema, appunto, affrontato nel 2018 a Trieste nelle giornate di studio durante le quali si erano confrontati ricercatori italiani, sloveni, croati e austriaci nell’analisi dei metodi di conservazione dei monumenti artistici nei rispettivi territori. Regioni caratterizzate in passato da modelli culturali simili e poi, nel XX secolo, da ideologie e strumenti di tutela diversi a seconda delle amministrazioni succedutesi in queste tribolate zone.

Il volume degli atti, corredato da interessanti immagini e documenti d’epoca, affonda nella realtà di mondi diversi, che la storia ha intrecciato e messo a confronto. Sotto l’Impero asburgico c’era per esempio la Zentralkommission, che dal 1850 tutelava da Vienna il patrimonio culturale del suo paese e che in regione ebbe a confrontarsi con la normativa italiana, ereditata dagli stati preunitari. Due dei più avanzati sistemi di tutela in Europa, cui oggi vanno collegate anche i territori appartenenti ora a Slovenia e Croazia, che con Trieste e Gorizia afferivano in precedenza all’Impero di Francesco Giuseppe.

E proprio al capoluogo giuliano fanno riferimento vicende architettonico-urbanistiche, che a prima vista possono sembrare soltanto curiose, ma che in realtà svelano un particolare aspetto della temperie culturale dell’epoca. In un ampio capitolo Giuseppina Perusini tratta dunque, con la consueta accuratezza e professionalità, ciò che le menti del tempo partorirono, spinte dal concetto positivista del fare, per il concorso indetto nel 1887 dal Comitato promotore (composto dal vescovo Giovanni Nepomuceno Glavina e da altri 26 illustri concittadini, tra cui Riccardo Bazzoni, Ruggero Berlam, Attilio Hortis, Giuseppe Parisi, Giovanni Righetti, Pasquale Rossetti) per il restauro della Cattedrale di San Giusto. Da attuarsi attraverso sottoscrizione pubblica, finanziamento molto diffuso allora nel Nord Europa (il Duomo di Colonia e di Trento docent). Il bando, datato 1° marzo 1887, richiedeva i progetti per la ristrutturazione interna della cattedrale, costruzione di una nuova facciata e rifacimento del campanile: sarebbero stati esposti in una mostra pubblica e poi giudicati da una commissione di cui faceva parte un delegato dalla Zentralkommission. I tre selezionati sarebbero stati premiati con 2000, 1.500 e 1.000 fiorini e poi inviati in copia alle Accademie di Firenze, Milano, Monaco di Baviera, Roma, Venezia e Vienna. Dei nove corposi elaborati presentati sono sopravvissuti solo quelli di Giovanni Righetti (1827 – 1901), architetto di famiglia ticinese tra i più noti in città, con il motto “Arte e Pace”, di Giovanni Conte con il motto “Medioevale” e di Enrico Nordio, che si avvalse solo della propria firma, confidando forse nella fama acquisita poco prima con il buon piazzamento nel concorso per la facciata del Duomo di Milano, come suggerisce Filippo Zamboni, letterato e patriota dal temperamento individualista e sognatore, nel suo saggio “Il restauro della basilica di San Giusto a Trieste”, teso a impedire il restauro stesso. E non possiamo dargli torto, visto che per la facciata il bando richiedeva una prima soluzione con “il semplice adornamento” dello status quo, giustamente condiviso da Zamboni, ma purtroppo anche una seconda con “l’edificazione di nuova facciata più innanzi nella piazza e similmente del campanile…”. Su questa seconda ipotesi si cimentarono (e ahimè sbizzarrirono) sia Righetti che Conte, prospettando soluzioni, più eleganti il primo, deludenti il secondo, mentre di Nordio rimangono soltanto degli abili disegni dello stato di fatto. Nel secondo progetto Righetti propose un avanzamento della facciata mentre il campanile rimaneva nella posizione originaria, nel terzo la facciata veniva avanzata e il campanile distrutto e ricostruito posteriormente. E anche Conte propose una soluzione con la facciata avanzata. Per il primo la cifra stilistica di riferimento era il romanico, per il secondo il neogotico, stili testimoni di un’assenza di creatività propria di quel periodo che affidava allo Storicismo, ossia al recupero e alla citazione eclettica del passato, un’innovazione che tale non era. Dovevano passare solo quattro lustri affinché nella storia dell’architettura e dell’urbanistica facesse capolino il genio innovatore dell’architetto Antonio Sant’Elia che, prima di morire in battaglia sul Carso nel ’16, a soli 28 anni, avrebbe tracciato la via geniale dell’innovazione, della modernità e del dinamismo. —
 

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