Trieste entra in guerra e sfilano gli squadristi ma il consenso è timoroso
TRIESTE L’entrata in guerra dell’Italia a fianco della Germania, il 10 giugno 1940, fu accompagnata a Trieste – scrive Galliano Fogar – da un consenso piuttosto preoccupato. Cortei formati in maggioranza da studenti, attivisti fascisti e “squadristi” percorsero la città. Anche se un rapporto del questore del 31 luglio 1940 rileva molto interesse ed entusiasmo nella maggior parte della popolazione, piazza Unità, dove i microfoni diffondevano il discorso del duce, era meno affollata di altre volte.
Nel maggio 1940 gli attivisti della Gil (Gioventù Italiana del Littorio) avevano voluto festeggiare l’inizio dell’offensiva tedesca in Francia. Apparentemente consentite o incoraggiate dalle autorità, si risolsero in atti teppistici antisemiti. Fonti di polizia riferiscono che “durante notte decorsa ignoti affiggevano strade Trieste manifesti ostili Stati democratici. Stamane massa studentesca disertava lezioni organizzando cortei che percorrevano vie canto inni rivoluzione intercalandoli manifestazioni ostili alleati et ebrei. [Vi sono manifestazioni ostili presso i consolati inglese e francese] et contro due negozi ebrei venivano lanciati sassi causando rottura vetrine. Pronto intervento forze pubbliche impediva però qualsiasi eccesso”.
L’inizio della guerra non poneva fine del tutto a tali manifestazioni: il 29 ottobre l’aggressione alla Grecia venne celebrata da un gruppo di 40 giovani, universitari e medi, che inscenarono una dimostrazione contro la Grecia in prossimità dell’Istituto Carducci tentando, senza riuscirci, di far sospendere le lezioni.
L’entrata in guerra dell’Italia non incentiva, invece, l’esaltazione patriottica né la propaganda. La voce delle autorità diviene più cauta. Predomina un atteggiamento definito da Raoul Pupo “d’incertezza e di attesa”. Nei giorni successivi al 10 giugno 1940 la Gil di Trieste invita gli studenti della classe 1922 ad arruolarsi volontari nel “costituendo Battaglione”, ma pochi rispondono. Il federale convoca il provveditore e i presidi, la cui opera di persuasione frutta in breve una novantina di adesioni tra gli alunni convocati in presidenza in ogni istituto, ma quelli che non si presentano sono molti di più. Se la borghesia e la piccola borghesia triestina, tradizionalmente patriottiche, rimangono disorientate, ben diversa è la risposta dei ceti operai, occupati nei grandi cantieri giuliani. Nella notte tra il 10 e l’11 giugno, militanti monfalconesi esprimono la loro protesta contro la guerra scatenata dal governo fascista lanciando migliaia di volantini indirizzati agli operai, agli impiegati, e agli stessi militi fascisti: “non dimenticate che siete operai, il fascismo vi ha strappato alle vostre case, per portarvi alla guerra”. I soli Carabinieri raccolgono ben 3000 di questi volantini. Il testo si chiudeva con un appello alle donne: “… non lasciate partire i vostri figli, unitevi e gridate abbasso alla guerra!”.
La linea politica di questa minoranza perseguitata e spesso espulsa dalle fabbriche, fedele all’internazionalismo sovietico, si innesta all’antifascismo esistenziale maturato nella quotidianità. Nonostante la crescita dell’occupazione operaia nei cantieri navali, a seguito delle commesse di guerra, i lavoratori rimanevano in balia della discrezionalità padronale. Con la guerra la situazione si fa più pesante a causa dell’aumento dei prezzi e la militarizzazione delle grandi fabbriche. L’operaio diventa un mobilitato civile, con tutta una serie di restrizioni e di controlli. A Monfalcone viene insediato in cantiere un ufficio di Polizia. Diventa reato anche l’abbandono del posto di lavoro per più di tre giorni. L’insofferenza operaia aumenta anche nei centri dell’Istria e di Fiume. Durissima è, infatti, la condizione operaia nelle miniere carbonifere dell’Arsa. Nel 1939 lavoravano nelle miniere circa 9000 operai tra italiani, sloveni e croati. Gravi infortuni erano accaduti nel 1937 con 13 morti e nel 1939 con 7. Ma la sciagura peggiore avvenne il 28 febbraio 1940, con 185 morti e 149 feriti. Un disastro rimasto impunito. La tragedia mineraria, una delle più gravi in Europa, chiamava ancora una volta in causa le responsabilità del regime in Istria e rimase ben impressa nei minatori italiani e slavi. Quel ricordo, insieme a quello di tante ingiustizie subite, contribuì in qualche modo a rendere più violenta in zona l’insurrezione croata del settembre-ottobre 1943.
Gli sloveni e croati rimasti nella Venezia Giulia, privati dell’uso della lingua materna e del diritto all’istruzione, consentito solo fino all’8° classe, si adeguarono, altri reagirono. Italo Sauro, consigliere di Mussolini, in una sua lettera inviata al duce nell’ottobre del 1940 scrisse che “gli slavi del Carso covavano sempre un profondo sentimento slavo e perciò erano anti-italiani”. L’accusa di anti-italianità, ovvia nei confronti degli slavi, fu estesa a tutti gli oppositori, anche se italiani. Malgrado i plebisciti e le cifre diffuse dal partito fascista, l’italianizzazione degli allogeni fu solo apparente. Milica Kacin scrisse che ai fascisti, come a molti altri italiani, sfuggiva il fatto che l’odio verso l’Italia non era un fine, bensì la logica conseguenza dell’oppressione. Dal momento che alla popolazione slava si impediva di salvaguardare la propria identità nazionale, in qualche modo era logico che l’antifascismo si identificasse nell’anti-italianità: “Tutti quei Balilla e quelle Piccole Italiane che la scuola fascista aveva allevato con tanta cura sul Carso e nell’Alto Isonzo – ha scritto lo storico e patriota triestino Carlo Schiffrer – si gettarono allo sbaraglio nella guerra partigiana con una costanza e un eroismo che temono pochi confronti proprio per reazione spontanea ad un sistema di coartazione spirituale, più odioso ancora del sistema di violenze materiali che lo sorreggeva”. —
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