Spie, sicari e tesori: così fu scavato il Canale di Ponterosso di Trieste

Il docente Daniele Andreozzi pubblica per la New Digital Press il saggio “Intrecci di vite”. Pratiche, mercantilismi e razionalità economiche nella Trieste del Settecento 
Il Canale di Ponterosso
Il Canale di Ponterosso

TRIESTE C’è una storia fatta di intrighi, processi, spie, sicari e tesori scomparsi dietro la realizzazione del Canale di Ponterosso di Trieste nel 1754. Proprio mentre il corso d’acqua navigabile nel cuore della città è interessato da complessi lavori di manutenzione ai ponti Verde e Bianco, un libro riporta a galla la complessa vicenda della sua costruzione e fa luce sul principale protagonista di quella avventura, Mattio Pirona, il cavafango veneziano che a Trieste trovò la sua fortuna e la sua disgrazia. Frutto di anni di studi e ricerche negli archivi di Trieste, Venezia, Vienna e persino del Vaticano, il libro “Intrecci di vite. Pratiche, mercantilismi e razionalità nella Trieste del Settecento” (New Digital Press, pagg. 335, euro 25) del docente di storia economica all’Università degli studi di Trieste Daniele Andreozzi, ricostruisce passo passo la storia di Pirona aprendo una grande finestra sulla Trieste dei primi decenni del Settecento, una città in pieno fermento dove si sperimentano nuove forme di economia in un groviglio di interessi spesso contrapposti che fa quasi pensare alle origini dell’adagio popolare del “no se pol”.

A sinistra la pianta di Trieste nel 1770 e, a destra, Mattio Pirona. Civici Musei di Storia ed Arte
A sinistra la pianta di Trieste nel 1770 e, a destra, Mattio Pirona. Civici Musei di Storia ed Arte


Mattio Pirona arriva a Trieste nel giugno del 1754. A Vanezia lavora come cavafango, una specie di ingegnere esperto degli scavi in laguna, già stretto collaboratore del Magistrato delle Acque. Quando arriva Pirona ha già in tasca un contratto segretamente sottoscritto con le autorità imperiali per lo scavo del Canal Grande, una via d’acqua atta a dare “asilo sicuro” alle navi “all’uso e alla maniera di Venezia”. La Trieste in cui mette piede Pirona assomiglia a una cittadina del Far West affacciata sul mare: sporca, chiassosa, piena di cantieri aperti, brulicante di avventurieri provenienti da ogni angolo dell’Impero, con le taverne affollate e dove è quasi impossibile trovare un alloggio. Ed è un posto zeppo di spie veneziane: è da quando Carlo VI ha proclamato la libera navigazione in Adriatico istituendo poi il porto franco (1717 e 1719) che la Repubblica Serenissima sta sulle spine, e fa di tutto per mettere i bastoni fra le ruote a questa cittadina che, già si capisce, ha tutte le intenzioni di farle le scarpe. Non potendo però irritare la Corte di Vienna con guerre o azioni offensive dirette, ecco che Venezia da anni sguinzaglia spie in ogni dove per avere rapporti aggiornati sui progressi triestini, e assolda sicari senza scrupoli per fare fuori soprattutto i veneziani che, come Pirona, fiutano nuove opportunità di affari e si gettano nelle braccia degli Asburgo.

La pianta di Trieste nel 1770
La pianta di Trieste nel 1770


Così, nell’estate del 1754, anche Pirona si porta dietro le sue spie. E quando torna brevemente a Venezia, cercano di farlo fuori ma senza riuscirci solo perché i magistrati sbagliano persona e arrestano il cugino Antonio. Nonostante gli Inquisitori alle costole, e nonostante le difficoltà tecniche, a Trieste Mattio Pirona porta a termine i lavori del Canal Grande a tempo di record. E in breve si ritrova ricco e famoso, e anzi entra direttamente nelle grazie dell’imperatrice Maria Teresa. Di più, il cavafango veneziano diventa, scrive Daniel Andreozzi nel suo saggio, “perno dello sviluppo di Trieste e protagonista assoluto dell’economia della città e degli investimenti più redditizi, sia nel campo della costruzione del centro urbano e delle infrastrutture utili alla navigazione, sia in quello commerciale”. In quegli anni Trieste è un laboratorio dove stanno nascendo nuovi modelli economici sul crinale tra antico e moderno, là dove “si annunciava la nascita di una nuova economia e la società aristocratica stava lasciando il posto alla società dei proprietari”. Il che provoca il formarsi non di uno spazio omogeneo, “bensì il coesistere di diversi, intersecati, sovrapposti e contrapposti ambiti normativi, dotati ognuno di propri codici, regole e punizioni, in cui gli attori sceglievano di collocarsi in base alle proprie strategie”. Altro che sviluppo lineare e galoppante, la crescita di Trieste fu in quegli anni il frutto di concorrenze spietate, sfide istituzionali e di un tutti contro tutti che creava ricchezze o le distruggeva in un batter di ciglia. Alla fine anche Pirona finirà stritolato da questi meccanismi: da uomo più potente della città precipita in un mare di guai tra sicari veneziani ancora sulle sue tracce, soci triestini che gli si sono rivoltati contro, creditori intransigenti, affari sfumati o impediti - come la questione del monopolio del pane con le “breschizze” servolane - catapultandolo in una serie infinita di cause giudiziarie che lo portano dritto in galera. Nemmeno l’imperatrice in persona, Maria Teresa, che lo adora, riuscirà a tirarlo fuori. Solo il salvacondotto imperiale che protegge la sua figura fisica lo aiuta un po’: nessuno può mettergli le mani addosso, nemmeno i carcerieri lo possono anche solo sfiorare. Ma servirà a poco. Mattio Pirona, l’uomo forte della nuova Trieste, colui che ha realizzato il Canal Grande dando una svolta ai traffici marittimi, morirà in prigionia nelle carceri della città la notte del 29 gennaio 1762, forse avvelenato, anche se le indagini non riusciranno ad appurarlo con certezza.

Sulla base dei documenti d’epoca il libro di Daniele Andreozzi racconta tutto questo e molto di più. Sono tante le figure che ruotano attorno alla figura di Pirona: il bargello Giovani Zanardi, l’avvocato Gabbiati, l’imprenditore Giacomo Balletti, il ricco e potente consigliere governativo Pasquale Ricci e molti altri. Fra loro anche la moglie di Pirona, Margherita, che si dice sapesse dov’era finito il tesoro di Pirona, “consistente in molta argenteria, gioie, oro, perle, diamanti, anelli e trecentocinque zecchini d’oro veneti (...) una cassa di porcellane ed altro”, di cui si persero allora le tracce e che non è mai stato ritrovato. —
 

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