Rodula Gaitanou: «La mia Cenerentola è un’illuminista attraente e moderna»

Sarà la regista greca a firmare l’opera di Rossini che va in scena venerdì 8 aprile al “Verdi” di Trieste
Rodula Gaitanou
Rodula Gaitanou

TRIESTE Sembra uscita dai vicoli onirici di Chagall quando, con la sua maestosa chioma scura e i lineamenti del volto che parlano della sua anima greca, solare e travolgente, appare sotto il porticato del teatro in sella alla sua inseparabile bicicletta, una Brompton che in poche mosse si racchiude su se stessa fino all’ingombro di una ruota. Rodula Gaitanou salirà con lei in sala prove, dove racconta la sua “Cenerentola”. È la regista della messinscena dell’opera di Rossini, che debutterà venerdì alle 20.30 al Teatro Verdi di Trieste. «Nel 2013 è stata il mio debutto alla Greek National Opera di Atene, “il mio primo ragazzo greco”», dice di questa produzione.

Trentaquattro anni e un cognome di probabili origini italiane, Rodula Gaitanou è figlia di un noto musicologo ateniese, Kostis Gaitanos, che assieme alla moglie Betty Barzouka ha fondato il Conservatorio “Musical Horizons”.

«C’è una grande differenza - spiega in un fluente italiano - tra la favola di Perrault e la storia che Rossini e il suo librettista Jacopo Ferretti hanno posto in musica. Eliminano l’elemento magico, e il sottotitolo è assai più interessante del titolo: “La bontà in trionfo”. Angelina, ossia Cenerentola, è un personaggio che ha in sé tutti i valori dell’Illuminismo. Le sue qualità umane emergono in superficie e questo la rende radiosa e attraente. È molto avanti rispetto ai suoi tempi. Ed è il primo personaggio di un’opera in cui l’intera storia è guidata dalla sua scelta».

Una storia che lei ha calato ai giorni nostri?

«Una grande ispirazione è stato il tema della gerarchia sociale. La volontà delle sorellastre, anche di Dandini, il servitore del Principe, di salire la gerarchia sociale mi ha fatto pensare di ambientare la storia al tempo della Grande Recessione del 1929, a New York, in un teatro il cui vecchio direttore è morto ed è stato richiamato suo figlio Ramiro, che fa la dolce vita in Europa, affinché ne assuma la gestione e si trovi una degna sposa. Angelina ha un gran talento per la scena, ma il patrigno Magnifico promuove le sue due figlie naturali, Clorinda e Tisbe, due starlette che il pubblico prende in giro perché non hanno grazia e il loro numero è terribile».

Dunque l’umanità è il tratto di Cenerentola?

«Un’umanità che viene dal profondo, che ispira, che fa evolvere le persone. Nei momenti di grande crisi l’istinto di ognuno è di far emergere i lati peggiori della propria personalità, invece Angelina riesce a rimanere se stessa, le difficoltà non la cambiano, non è fragile, non è perdente. La vedo come un anello di congiunzione con la nostra epoca».

In che senso?

«Sono in crisi i valori dell’Illuminismo e l’identità europea basata su questi valori. Abbiamo bisogno di più Cenerentole, di persone che vadano incontro con simpatia e umanità al fratello o alla sorella che soffrono e che si trovano in condizioni di vita difficili. Alla fine è questo che fa muovere il mondo, non l’egocentrismo. Nei paesi europei manca una reazione collettiva, una decisione ufficiale per trovare una soluzione a questa enorme crisi umanitaria dei rifugiati che si. a basata sullo spirito di fraternità».

Quale opera ha più amato mettere in scena?

«La prima delle mie regie che mi è rimasta incisa nel cuore è stata “L’isola disabitata” di Haydn, perché era il mio debutto al Linbury Studio del Covent Garden, un passo importante nella mia vita professionale. Lo spettacolo ha viaggiato anche in Tasmania e ha avuto due nomination come migliore regia e migliore produzione agli “Helpmann Awards” a Sydney. Il Covent Garden è la mia Alma mater e ritorno ogni tanto per fare delle riprese o per lavorare a nuove produzioni. Amo anche la British Youth Opera, un’importante compagnia londinese di giovani talenti. È contagioso l’entusiasmo di questi giovani che vengono alle prove come se andassero a una festa, alle dieci della mattina».

La sua regia più recente?

«Una “Tosca” a Xi’an, una delle città più antiche della Cina, la prima capitale. Era la prima volta che in questa città si rappresentava un’opera con un allestimento e non in versione concertante. È stato un grande onore per me, ti fa sentire come un pioniere che fa una cosa nuova per tutti. Era un mondo molto speciale».

Qualche ricordo della sua infanzia in Grecia?

«La musica mi scorre nelle vene perché i miei genitori sono pianisti, e anche le mie sorelle sono musiciste. Krystalia è violista e Leonora è mezzosoprano e violoncellista. Quando avevo otto anni mio papà è stato sovrintendente della Greek National Opera per tre anni e ci portava ogni sera in teatro. Le bambine di quell’età giocano con le Barbie, io pensavo a Violetta, fingevo anche la sua tosse. Traviata, Rigoletto, Don Carlos erano le mie favole, le storie della mia infanzia. Sono veramente “The Opera Girl”, così mi chiamano in Inghilterra».

Le sue preferenze musicali?

«Sono cresciuta in una casa che vibrava di musica, perché mio papà non può ascoltare una sinfonia di Brahms se il volume non è al massimo. E l’opera era il pane quotidiano, ma nella mia adolescenza volevo scoprire cosa è venuto dopo, con il suono elettrico e con i musicisti che pensavano a una rivoluzione sociale. Ho avuto un grande interesse per il punk, anche per il britpop, la musica della mia generazione, degli anni ’90, e molto per il jazz e lo swing».

Gli studi l’hanno riportata alla musica classica.

«A Parigi ho cercato la musica barocca, particolarmente francese. Ho anche cominciato a suonare il violino barocco, la viola da gamba, facendo i miei studi di regia, e la musica contemporanea. Parigi è un centro per la musica contemporanea, c’è un pubblico appassionato. Gli inglesi non la amano quanto i francesi».

Dove vive?

«La mia casa è a Londra, ho base lì da sette anni, la mia famiglia è ad Atene e tutti i miei amici vivono a Parigi. Il cuore è molto disperso perché ho una vita molto girovaga, molto gitana. Sono un po’ come il camaleonte, che cambia colore e diventa parte dell’ambiente, si sente a suo agio dov’è».

La sua bicicletta la segue ovunque?

«Sì, è venuta con me in Australia, in Cina, in Europa, quindi in Francia, in Spagna, in Portogallo, in Irlanda, in Svezia, in Italia, in Grecia... Andare in bicicletta mi dà la libertà di scoprire sempre qualcosa, mi dà l’indipendenza e la possibilità di muovermi da sola, e anche la sicurezza dell’abitudine. L’altro giorno pedalavo con il mio collega, lo scenografo Simon Corder, e per puro caso siamo finiti davanti alla Risiera. È stata per me l’esperienza più forte vissuta nelle tre settimane da che sono qui a Trieste, e credo che sarà d’ispirazione per le prossime cose che farò».

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