Quei tiri sballati al pallone parati dagli alberi dell’oratorio dei Salesiani a Trieste
I ricordi di un allievo del don Bosco negli anni del boom economico: “Per la nostra gioia l’ora di religione si tramutava in una partita di calcio con il prete arbitro”
TRIESTE Per noi, ragazzini dell’epoca, quella soglia rappresentava il confine fra la realtà quotidiana, fatta di compiti a casa e di orari scolastici da rispettare, con l’aggiunta del costante timore di essere interrogati in una materia nella quale magari non eravamo preparati, e il mondo dei sogni e del divertimento.
Il passaggio in un universo nel quale l’unico dettato, il solo obiettivo da centrare era rappresentato dalla scelta fra il pallone da calcio e quello della pallacanestro, fra il calcio balilla e le racchette da ping pong, fra la lettura di un fumetto e i duelli coi sacchi di sabbia, seduti a cavalcioni sull’asse di equilibrio, nella certezza che cadere era divertente quanto giocare, perché sotto c’era un morbido letto di materassi. La porta era quella dell’oratorio dei Salesiani di via dell’Istria.
In quegli anni, siamo nella seconda metà degli indimenticabili ‘60, quelli, tanto per capirsi, del boom economico, delle Fiat 500, delle Vespe e delle Lambrette che sfrecciavano tutte assieme ai semafori, formando un variopinto ventaglio, non appena scattava il verde, un luogo rigorosamente riservato ai maschietti e gestito dai sacerdoti salesiani della parrocchia di Don Bosco, presenza fondamentale nel tessuto sociale della città per intere generazioni. I primi religiosi salesiani erano infatti giunti a Trieste già nell’ottobre del 1898 e subito erano stati inseriti nella popolare zona di Chiarbola Superiore, all’epoca un’area povera, un rione lontano dal centro, situato ai margini della parrocchia di San Giacomo, iniziando immediatamente il loro tradizionale e riconosciuto lavoro apostolico in favore della gioventù, dedicandosi all’apertura dell’oratorio, inaugurato un anno dopo, nel 1899.
L’area in cui operavano, in via dell’Istria, a poche centinaia di metri da largo Pestalozzi, ben si prestava alla realizzazione di due chiese, da costruire una sopra l’altra. Il 6 giugno del 1909 fu benedetta dal vescovo, Francesco Saverio Nagl, la prima pietra del nuovo luogo di culto, che ancor oggi si affaccia sulla via dell’Istria, e nell’anno successivo fu aperta la chiesa inferiore, il cui soffitto doveva fungere da pavimento della superiore, che si affaccia ancor oggi sul grande piazzale, fulcro dell’oratorio. Conclusi i lavori dell’intera costruzione, progettata dall’architetto Cornelio Budinich, anche la chiesa superiore fu aperta al culto e benedetta dal secondo successore di don Bosco, il sacerdote Paolo Albera, assistito dal vescovo Andrea Karlin, il 28 maggio del 1911 e fu dedicata a Maria Santissima Ausiliatrice.
La chiesa divenne sede parrocchiale intitolata a San Giovanni Bosco il 31 gennaio del 1940, giorno in cui si ricorda appunto il santo che fu sempre vicino ai giovani, in virtù della separazione da quella di san Giacomo. Subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, il rione iniziò a popolarsi molto rapidamente.
Furono costruiti numerosi palazzi ed edifici e l’oratorio divenne sempre di più il punto di riferimento per tutti i bambini, i ragazzi, i giovani della zona. Per noi, che frequentavamo la vicina scuola elementare, la “Scipio Slataper”, di via della Bastia, il legame con l’oratorio era un fatto naturale.
Nei mesi della scuola, da ottobre a maggio, spesso l’ora di religione ci vedeva raggiungere l’oratorio salesiano, dove il sacerdote, cedendo alle nostre richieste, invece di fare lezione, ci permetteva di dare libero sfogo alla nostra naturale vitalità di ragazzini. Tirava fuori il pallone da calcio e, sistemate le nostre cartelle ai lati delle porte, indossava virtualmente i panni dell’arbitro e dava il via alla partita.
D’estate per noi l’oratorio diventava invece una vera e propria seconda casa, nella quale vivere e giocare dal mattino al tramonto. Alle 9 la famosa porta si apriva e c’era la corsa per accaparrarsi i palloni migliori, per occupare il tavolo da ping pong, per trovare posto nella sala lettura.
Eravamo centinaia, scatenati in quel grande cortile, con gli alti alberi cresciuti dietro alla porta del campo da calcio che guarda ancora oggi a sud e che facevano da schermo quando i tiri erano decisamente sballati. Erano alberi importanti, perché evitavano faticosi recuperi del pallone nella campagna retrostante, che avrebbero interrotto il gioco.
Due volte al giorno però, a metà mattina e verso le 17, qualche minuto di sosta era sancito e inderogabile: uno dei sacerdoti suonava la campana e tutti, senza eccezione, dovevamo sospendere qualsiasi attività e, in silenzio, raccolti attorno ai religiosi, ascoltare le preghiere. Sudati, con il viso arrossato, col pallone sotto il braccio, aspettavamo il trascorrere di quei pochi minuti, che a noi sembravano interminabili, sotto il sole estivo: e quando la campana suonava nuovamente, decretando la fine del momento di raccoglimento, le urla riprendevano.
Oggi quel mondo non c’è più: l’oratorio è attivo, ma la gioventù è attratta da mille altre possibilità di divertimento. Eppure noi, allievi del Don Bosco dell’epoca, quando ci ritroviamo per una rimpatriata, quell’emozione delle corse col pallone sull’asfalto la riviviamo come se fosse attuale, indimenticabile.
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