Quando Linuccia Saba sognava di fare cinema per guadagnare più soldi

TRIESTE Chi era veramente Linuccia Saba? Il ritrovamento di due soggetti cinematografici da lei scritti intorno al 1948 – conservati nel fondo Benco-Gruber della Biblioteca Civica di Trieste, ma finora ignorati – ha dato l’occasione a Marina Silvestri di ricostruire con maggiore profondità la figura della figlia di Umberto Saba nei suoi contesti biografici, culturali e soprattutto psicologici. L’appassionante esito di questa ricerca è ora l’introduzione del volume “Linuccia Saba e il cinema, un sogno negato. Due soggetti ritrovati” (Eut – Edizioni Università di Trieste, pagg. 115, con un saggio di Sergio M. Grmek Germani), che sarà presentato mercoledì 30 ottobre, alle 17.30, al Circolo della stampa di Trieste in Corso Italia 12. Interverranno l’italianista Fulvio Senardi e Sergio Grmek Germani, presenti la curatrice e il responsabile di Eut, Mauro Rossi.



Questi soggetti per il cinema aprono un capitolo nuovo su Linuccia, e hanno spinto Marina Silvestri a esplorare la sua personalità principalmente nel rapporto complesso verso le figure maschili della sua vita, il padre poeta Umberto, il marito scenografo e sceneggiatore Lionello Zorn Giorni e il compagno scrittore e artista Carlo Levi. Accanto a questo tema – più che mai ancora attuale, relativo al ruolo e all’emancipazione di una giovane donna nell’ambiente intellettuale e cinematografico – la Silvestri ha ricostruito in maniera dettagliata i due mondi in cui Linuccia aveva maturato le sue aspirazioni: la Trieste tra le due guerre, fatta di grande letteratura ma anche di un legame stimolante (e finora sottovalutato) con il cinema; e la fervida Roma artistica e cinematografica del dopoguerra e del Neorealismo che ruotava intorno a via Margutta. I due soggetti ritrovati, due brevi dattiloscritti riprodotti nel volume (“Il triangolo della virtù” e “Una storia milanese”), si trovavano fra le carte della regista Anna Gruber, figlia di Aurelia Benco e Carlo Gruber, nipote di Silvio Benco, che a Roma aveva lavorato come aiuto regista per Vittorio De Sica e Mario Soldati.



“Impossibile ricostruire come Anna Gruber ne sia entrata in possesso”, scrive Marina Silvestri, insinuando un pizzico di mistero in un contesto, quello letterario dei Saba, che di enigmi ne aveva già sollevati: la pubblicazione a sorpresa da parte di Linuccia di due romanzi postumi, l’incompiuto “Ernesto” del padre Umberto e “Il segreto” di un “Anonimo triestino” (poi risultato Giorgio Voghera); e il banale smarrimento dei versi pubblicitari di Saba sui film del Cinema Italia.

Anche se l’esistenza di questi due soggetti è rimasta sottotraccia per 70 anni, Linuccia ebbe sicuramente l’ambizione che fossero realizzati, tanto da chiedere di promuoverli a Carlo Levi, che in quegli anni cercava un regista per trasporre il suo romanzo “Cristo si è fermato a Eboli”. Dai carteggi risulta che uno dei due soggetti fu dato in lettura a Mario Soldati, amico di Levi, che lo apprezzò e promise di proporlo a Carlo Ponti. Tuttavia l’ambizione di Linuccia si scontrava con i timori per il giudizio severo del padre Umberto, tanto da firmarsi per gli altri suoi articoli con lo pseudonimo Annetta Pane (in ebraico “saba” è il pane). Inoltre, la sua ritrosia poteva derivare dal fatto che tali soggetti ruotavano intorno a un aspetto problematico del suo rapporto filiale, i soldi, essendo la famiglia notoriamente angustiata sul piano economico. Quando Lionello chiese la mano di Linuccia a Saba, questi gli diede del Lei con occhi gelidi: “Quanto vale la Linuccia? Quanti soldi sarebbe disposto a pagarmi?”. Nel soggetto di Linuccia “Una storia milanese”, una giovane donna viene dissuasa dal suicidio da un uomo che le regala 10mila lire. Nel “Triangolo della virtù”, un uomo ruba a una vecchia 50mila lire per salvare dai debiti il fratello dell’amata.

“Cosa spinge la Linuccia a scrivere per il cinema?”, si chiede la Silvestri. “Mi importa solo per i soldi”, ribadì la figlia del poeta a Levi nel 1950. Questa ragazza “fuori dagli schemi, cresciuta in fretta per desiderio di libertà e indipendenza”, assillata dal tenore di vita, pativa dunque i pregiudizi maschilisti del padre, i cliché e il moralismo che ancora segnavano la società. Sposata con Lionello ma innamorata di Carlo, in un’epoca senza divorzio “Linuccia non lascerà Nello e non lascerà Carlo” (Silvestri). Eppure, Linuccia per Carlo Levi fu ben più che una consigliera, “Linuccia aveva il potere di dire sì o no”, ricordava il regista Francesco Rosi. E tuttavia era costretta a rimproverare a Carlo la clandestinità del loro rapporto. Si può intuire allora l’importanza che potevano avere per Linuccia quei due soggetti rivolti all’effervescente mondo del cinema, che per lei a Trieste era familiare avendo sentito il padre commentare i film e avendo lavorato giovanissima dallo zio esercente. Un’importanza per lei non tanto materiale quanto intima, legata “al suo bisogno di autoaffermazione, alla necessità di affrancarsi dal padre e da uomini che, pur amandola, non placavano la sua ansia di vita” (Silvestri). “Quanto vale la Linuccia?”, si sarà chiesta più volte, rivolgendo a se stessa l’imbarazzante domanda che il padre faceva ai suoi pretendenti, elencando tutti i suoi difetti. Fra i due soggetti, “Una storia milanese” sembra in questo senso il più personale. Come scrive nel volume Sergio M. Grmek Germani, esso appare segnato da “un destino molto triestino: quello dell’irrealizzazione, con cui soprattutto la grande prosa di Italo Svevo e la grande poesia di Umberto Saba si sono confrontate al livello più alto”. —
 

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