Pier Aldo Rovatti: «Chi sono gli egosauri che glorificano se stessi e non sanno stare assieme»
Sono torpidi, sornioni e soddisfatti di sé. Pier Aldo Rovatti, accarezza i suoi due bei micioni che di tanto in tanto emettono mugolii di benessere, schermendosi imbarazzato dalla definizione attribuitagli dall’Espresso di “grande filosofo del pensiero debole” . Ma non ai gatti si riferisce: nella nostra società piuttosto lievitano gli “Egosauri” (Eleuthera, pagg. 189, euro 16) termine coniato da Rovatti per quegli esseri mostruosi di corpo e dall’ego abnorme, cesellati a sbalzo nelle riflessioni di etica minima pubblicate anche dal nostro quotidiano. La raccolta sarà introdotta da Mario Colucci, presente l’autore, oggi nella Sala Mare del Castello di San Giusto alle ore 17.15, a chiusura del festival “Barcolana-un mare di racconti”.
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Professor Rovatti, chi è questo ultracorpo che ci ha invaso?
«L’io è il più orrendo dei pronomi, osserva caustico lo scrittore Carlo Emilio Gadda. Gli egosauri sono attorno a noi, ma anche dentro di noi. Rappresentano il culto dell’io, l’incapacità di stare assieme. I politici egosauri, affamati di potere, glorificano se stessi disprezzando gli altri».
La ritiene una caratteristica tutta italiana?
«“Per fortuna o purtroppo sono italiano” cantava Giorgio Gaber. È arduo riempire di senso un’idea d’Italia utile per innestarvi una politica credibile. Attualmente è in auge una versione sovranista. Purtroppo. Ma “per fortuna” abbiamo ancora la capacità di sentirci cittadini del mondo. Proprio riscoprendo i contenuti della lunghissima vicenda culturale della nostra Penisola possiamo salvarci dai regimi».
Perché parla di regimi, al plurale?
«Perché ci sono molteplici verità e molteplici regimi. La verità ha perso il suo carattere di assolutezza. Dobbiamo capire quali effetti questa perdita produce sulla nostra soggettività, come si annoda alla filosofia e alla psicoanalisi, come può stare insieme alla nozione di differenza. Ciò nell’epoca della sorveglianza generalizzata e di una comunicazione mediatica pervasa dalla falsificazione».
Come salvare quel poco di verità rimasta?
«Da sette anni mi impegno con valenti collaboratori ad animare la Scuola di filosofia di Trieste. Autogestita, senza finanziamenti, al Parco di San Giovanni. Il seminario, che parte a gennaio, quest’anno è dedicato a “Regimi di verità”».
A cosa serve la filosofia?
«Ad avere più aria da respirare. Questa scuola si mette di traverso rispetto a quelle ricettacolo del “pensiero unico” habitat degli egosauri. Il “pensiero debole” ripudia l’intolleranza e porta ad ammettere vari punti di vista».
Come le è successo di appassionarsi alla filosofia?
«All’ultimo anno di liceo, al Parini di Milano, con il regista Giorgio Strehler entrai nel giro intellettuale, io, figlio di ragioniere, quarto di cinque figli. Già allora, inizio anni ’60, quando in prima battuta mi iscrissi a Lettere alla Statale, mio padre sollevò gli occhi dai suoi libri contabili vergati con scrittura meticolosa: ma poi come vivi?».
Già, poi come visse?
«Mi folgorò Bertolt Brecht, il suo “Vita di Galileo” che affronta le problematiche, attualissime, tra scienza e potere; fu il motore che diede l’avvio a quel pensiero critico in cui mi identifico. Passai a Filosofia incoraggiato da Enzo Paci, che però si era molto esposto durante il’68. Inviso lui, quando morì nel 1976, inviso anch’io».
Come arrivò all’università di Trieste?
«Grazie a un altro grande triestino, Gillo Dorfles che insegnava Estetica a Milano. Cominciai a fare il pendolare, nel 1978. Ma, ripartendo, vedere dal treno la costiera che si allontana mi faceva stringere il cuore. È un amore che dura ancora, suggellato con la triestina che ho sposato».
E l’amore per l’ambiente, scoppiato in questi ultimi tempi per strade e piazze, durerà?
«Temo di no. È più facile bloccare la frantumazione del ghiacciaio della Val d’Aosta che invertire il nostro privilegiato trend di vita. Protestare contro il sistema di potere, con l’approvazione del sistema di potere, significa riconoscere nulla influenza alla protesta». —
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