Pannofino: «Adoro Trieste, ho cominciato qui»

TRIESTE «Adoro Trieste, è bellissima. Nel 1982 ho fatto tre spettacoli con il vostro Teatro Stabile. Ero pischello, come si dice a Roma, ero un ragazzo. Poi sono venuto per girare un paio di film e delle fiction. Era parecchio che non tornavo e sono contento di poter stare ora una settimana al Bobbio». Francesco Pannofino sarà domani, alle 20.30, al Teatro Bobbio assieme a Emanuela Rossi con “I suoceri albanesi”, una commedia scritta per loro da Gianni Clementi, per la regia di Claudio Boccaccini. Gli altri interpreti sono Andrea Lolli, Silvia Brogi, Maurizio Pepe, Filippo Laganà e Elisabetta Clementi.
Figlio di un maresciallo dei carabinieri e di una sarta, nato in Liguria ma di sangue pugliese, Francesco Pannofino deve la sua popolarità senz’altro al remake televisivo di “Nero Wolfe”, e ancor prima a “Boris”, la serie tv e il film, in cui era il regista René Ferretti. Dopo aver girato “Patria” di Felice Farina e “Assolo” di e con Laura Morante, sarà protagonista di “My Father Jack” di Tonino Zangardi, ancora in fase di montaggio. Con la sua voce intensa e profonda fa parlare in italiano George Clooney, Denzel Wahington, Tom Hanks, Antonio Banderas e altri attori stranieri.
«Gianni Clementi - spiega - voleva approfondire il tema dell’ipocrisia di chi predica bene e razzola male. E lo fa attraverso due genitori. Il padre è un consigliere comunale abbastanza di sinistra, predica la solidarietà, l’accoglienza, l’uguaglianza, e la madre è fissata con la cucina molecolare, lasciando tutti sempre affamati. A un certo punto scoppia l’amore tra la figlia adolescente, una ragazza un po’ ribelle, e il più giovane di due fratelli albanesi giunti a casa loro per un guasto a una tubatura».
E cosa accade?
«Si creano situazioni paradossali e imbarazzanti, che suscitano ovviamente l’ilarità del pubblico. Perché questi due fratelli sono di una zona dell’Albania molto remota, molto povera, che adotta ancora un codice medievale, il Kanun. Il quale prevede addirittura che il marito possa uccidere la moglie, se non obbedisce ai suoi voleri. Perciò questi poveri genitori cominciano a preoccuparsi».
Un invito alla riflessione?
«Quando ci si trova a che fare con culture, tradizioni, abitudini diverse, bisogna venirsi incontro per integrarsi. È possibile convivere pacificamente, e noi attraverso questa commedia vogliamo anche dare una mano a questo tipo di pensiero».
Lei, appassionato di storia recente, fu testimone del rapimento di Aldo Moro.
«Abitavo in via Fani e stavo andando a prendere l’autobus per raggiungere l’università, quando è avvenuta la strage. Non era facile vivere a Roma nel ’78, la lotta armata era in pieno fermento e i giovani erano chiamati all’impegno politico, ti dovevi comunque schierare. Io sin da subito mi ero schierato contro la lotta armata, istintivamente, nonostante molti miei amici avessero intenzione di aderire».
Un ricordo di quel 1982 a Trieste?
«Ero nella compagnia che portò in scena “L’affare Danton”, “Bouvard et Pecuchet” e una commedia di Italo Svevo, “Conzai per le feste”. Il primo attore, Mario Maranzana, mi prese subito in simpatia. È stato uno dei miei maestri più importanti, aveva una cultura straordinaria. I poeti non sono solo quelli che scrivono le poesie, il poeta è anche un modo di essere, un modo di pensare. E lui aveva una dose di poesia molto alta, era un uomo dotato di una forza incredibile».
Sul set ha incrociato un altro grande triestino, Nereo Rocco.
«Sono felice di citarlo perché è stato un personaggio che mi è piaciuto fare. Io me lo ricordo, Nereo Rocco. Quand’ero ragazzino mi piaceva tantissimo come parlava, era schietto, vero, diceva quello che pensava. E quando mi hanno proposto il ruolo di Nereo Rocco nel film “La farfalla granata”, ho fatto i salti di gioia. Mi sono riguardato le interviste, le lunghe chiacchierate che lui e Gianni Brera si facevano davanti a un bicchiere di vino, e così mi è ritornato in mente anche il suo modo di parlare. Poi io ho vissuto parecchio a Trieste, amo rifare la vostra cadenza, il vostro accento».
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