Nelle sette stanze di Giuseppe O. Longo le macchine pensano il futuro al posto nostro
TRIESTE Ventuno racconti, il più antico dei quali risale al 1980, in parte inediti e in parte già apparsi su riviste o giornali, compongono il nuovo libro di Giuseppe O. Longo, ’Sette stanze’(Jouvence, 240 pagg. , 20 euro); sono testi di vario respiro e colore, che vanno dalla crudeltà alla vecchiezza, dalla rassegnazione alla nostalgia e che nel complesso esprimono la malinconia e lo slancio inconsapevole della vita, il tormento della ricerca, la disperazione dell’esilio, il cieco strazio dell’infermità, la nostalgia dei giorni sereni. Nella scansione nei sette capitoli nei quali sono raggruppati i testi, ritorna la consuetudine cara all’autore di trovare una chiave di lettura omogenea, una sorta di indicizzazione a posteriori a racconti nati come nuclei espressivi individuali e conclusi. E come anche in altre raccolte di Longo, per esempio l’Antidecalogo, pubblicato sempre da Jouvence, la ricca tavolozza delle storie, che variano dal surreale al fantastico, dal realistico all’insolito, dal fiabesco allo spietato sembra scaturire da un fondo di pessimismo, dal’nero oceano della lontananza innominabile’, dalla’nostalgia di un passato luminoso e perduto’, da’una grande calma, velata da una punta di malinconia inesplicabile’.
Professor Longo, colpisce nei suoi racconti la capacità di padroneggiare registri molto diversi, dal surreale al fantastico, dall’insolito al fiabesco.
«Accanto alla varietà di temi ho scelto anche di diversificare lo stile: alcuni racconti hanno una punteggiatura molto rarefatta, in altri ci sono dei dialoghi. Quando comincio un racconto molte volte non so dove vado a parare, è il racconto stesso che mi conduce, sono le parole, le assonanze, le risonanze interne oppure musicali che mi portano verso la fine del racconto. A volte ho in mente un piano generale, ma durante la stesura può essere che questo piano vada disatteso, è il racconto stesso che mi dice quando è finito».
In questa raccolta compare un racconto, ’Prove di città desolata 2222’, che si svolge in uno scenario apocalittico in cui, in un futuro lontano, assistiamo a una Trieste che viene sommersa dal mare. La gente si è ritirata a vivere sul Carso, ma il clima impazzito ha reso l’ambiente ostile, popolato da animali horror e piante carnivore. Ritorna anche il simbionte, una figura di cui si è occupato anni fa. Come possiamo definirlo e aggiornarlo?
«Il simbionte è un concetto molto elastico che deriva dal processo di ibridazione tra uomo e macchina cominciato negli anni Cinquanta, quando nasceva l’intelligenza artificiale. Poi ci si è accorti che le macchine non sono solo oggetti esterni, ma qualcosa che può penetrare nel corpo e nella mente, e si sono creati degli esseri che sono ibridi tra soggetti e oggetti di un tempo».
Come mai predilige più il racconto, ne ha scritti circa duecento, al romanzo?
«Intanto va detto che un romanzo ha a che fare con l’epistemologia, con la conoscenza, ha un sostrato filosofico, i racconti invece riguardano molto gli esseri umani. Poi in un romanzo ci si può addormentare qua e là, mentre un racconto deve essere misurato e pesato nelle sue singole frasi e parole e non ci può essere nessuna distrazione. Il racconto deve essere una specie di gioiello perfetto, mentre il romanzo è come una sinfonia dove ogni tanto l’autore può dormicchiare, il racconto deve essere teso come una freccia che esce dall’arco e va direttamente al bersaglio».
La sua opera, così influenzata dalla sua professione di teorico dell’informazione, ha gettato un ponte tra scienza e letteratura.
«Quando ho cominciato il liceo classico al Petrarca mi sono trovato molto a mio agio perché c’era la conoscenza allo stato più puro. All’università mi sono iscritto a ingegneria elettronica e specializzato in teoria dell’informazione, ma andavo a lezione di geometria analitica portandomi i libri di Platone sotto il banco. Non mi bastava quello che mi forniva l’università. Dov’è l’uomo nella termodinamica, mi chiedevo. Così ho creato un ponte tra mondo e uomo, tra tecnica e poesia, perché gli esseri umani hanno bisogno di bellezza, di filosofia, di poesia e sono approdato alla scrittura di racconti che sembravano di fantascienza, ma erano racconti problematici, perché ponevano l’essere umano di fronte ai problemi della complessità».
La fantascienza adesso sembra un genere al tramonto.
«È stata molto importante perché ha costruito degli scenari nei quali si collocavano le conquiste che faceva la tecnica. Quando la tecnica e la scienza hanno cominciato a marciare più rapidamente, della fantascienza non c’è stato più bisogno».
Lei ha introdotto la teoria dell’informazione in Italia: era immaginabile allora qualcosa di simile alla rivoluzione che abbiamo vissuto?
«No, ma l’essere umano si abitua in modo molto rapido e le macchine non ci sorprendono più. Gunther Anders ha scritto che l’uomo è obsoleto perché lo sviluppo tecnico ha sorpassato le potenzialità dell’essere umano e ha parlato di vergogna prometeica: costruiamo macchine più forti di noi e ci sentiamo nudi di fronte a loro. Prendiamo i megadati: sensori rilevatori producono quantità inimmaginabili di dati che l’uomo da solo non saprebbe maneggiare, così si affida agli algoritmi, macchine che però finiscono con l’immaginare il futuro al posto nostro». –
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