Nelle “Piccole Patrie” di Toni Capuozzo la Trieste dei moli e del pinguino Marco
Da oggi, sabato 7 novembre, in abbinamento con Il Piccolo, è in vendita il libro “Piccole Patrie” dello scrittore-giornalista Toni Capuozzo (14,50 euro, Edizioni Biblioteca dell’Immagine).
“Piccole Patrie” è il racconto di come nella mia vita abbia avuto molte radici, e molti luoghi che ho sentito casa mia, con nostalgia e insofferenza, dal Friuli a Trieste. Certo, dovrei aggiungere Roma, dove iniziai la professione di giornalista, da Milano dove vivo tuttora e Napoli, la città di mio padre. E ancora di più ho vissuto come “piccole patrie” non ereditate dall’anagrafe o dalla famiglia luoghi lontani ma insistenti nelle mie passioni: l’America Centrale o Buenos Aires, il Medio Oriente o Gerusalemme, Kabul o Sarajevo.
Non mi è stato difficile perché le mie radici erano confuse, sin da bambino: per il mio cognome, per la babele linguistica e gastronomica di casa mia, per l’evidente diversità tra il piccolo mondo in cui crescevo e l’affacciarsi a Trieste, aperta sul mare. Ricordo ancora come un’avventura i viaggi in treno con mia madre, e il confine all’altezza della Cartiera del Timavo.
Mia madre che mi raccontava dei soldati indiani accampati nella pineta – e per me “indiani” richiamava inevitabilmente i cow boys – e di come fossero gentili i militari neozelandesi, simpatici e chiassosi gli americani, inflessibili gli inglesi, e pericolosa, per le ragazze, qualche altra divisa.
A Trieste, ai grandi magazzini ho sperimentato la prima scala mobile della mia vita, e alle Poste sarei rimasto ore a giocare con la porta girevole, poco lontano dalla casa buia di mia nonna, in via Milano, che aveva sempre un odore di cera per pavimenti. Trieste era la città, e il mondo, visto da un molo o sotto forma di un pinguino di nome Marco che non sapevamo essere femmina.
Mia nonna lavorava sulle navi de Lloyd, mia madre era nata su una nave. Mio padre, poliziotto, ha visto colleghi morire nelle foibe titine e nei lager nazisti: la storia del ‘900 era un racconto, e più spesso un silenzio, di famiglia. Ho girato il mondo, da giornalista. Ma, si sa, le radici sono come un elastico. Da giovane ti lasciano andare, in vecchiaia ti richiamano indietro, ai luoghi, ai nomi, ai sapori dell’infanzia.
“Piccole patrie” è per me la conferma di un rapporto mai interrotto. Articoli su mondo e gli scenari della mia gioventù, cronache e gialli, l’entusiasmo del ’68 e il grigiore degli anni di piombo, personaggi e amici scomparsi. Molto Friuli, ma anche Trieste. Sono stato tra i primi a raccontare l’hangar 9 dei profughi istriani, e a scrivere sulle foibe in testate e giornali che non avevano quella vicenda nel loro DNA. Qualche volta sono entrato nelle storie personali di una città che volevo raccontare nelle sue diversità, per storia, geografia, anima. O forse volevo solo trovare una scusa per tornarci.
Anche il giorno dei morti, ho un’incombenza facile, niente fiori o lumini. Mi basta andare in piazza Unità e guardare l’orizzonte liquido, dal molo. In quel mare sono state sparse, secondo la sua volontà, le ceneri di mia madre.
Era rimasta fino alla fine una mula de Trieste, nell’allegria e nella melanconia, nelle canzoni e nelle nostalgie, nella forza e nella grazia. Era la sua città, e dunque un po’ anche la mia.
Certo, era un’altra Trieste, con i racconti di una bora che potrebbe – paura e meraviglia – far volare i bambini, con i sapori delle caramelle comprate alla stazione, delle favette di novembre, della composta in barattolo che mia nonna portava dalla nave, i baci delle amiche di mia madre che chiamavo zie, che guardavo con sospetto e apprensione perché capivo, dai loro discorsi, che stavano con qualche “mato”. La letteratura, la storia, tutto è venuto molto dopo, ma i ricordi in bianco e nero sono indelebili. —
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