Nel convitto di Gorizia si giocava sul confine, ma i graniciari a volte rubavano il pallone

Il “dante alighieri” era attaccato al valico internazionale della Casa rossa: il muro e l’alta rete della frontiera con la Jugoslavia erano adiacenti all’edificio scolastico

Walter Chiereghin

GORIZIA Per quanti a Trieste o Gorizia hanno oggi vent’anni o poco più, il confine con la Slovenia è un concetto astratto, qualcosa che somiglia alla linea che delimita la zona a traffico limitato nei piani del traffico di una città, limite che si rischia di attraversare se non si presta attenzione alla segnaletica. Per le generazioni che hanno preceduto i ragazzi di oggi, nate dal dopoguerra agli anni ’70, il confine con la Jugoslavia è stato per decenni una presenza incombente, che segnava di sé il paesaggio, anche quando la distanza impediva di vederlo. È stato a lungo così, naturalmente, per quelli che avevano subito le più drammatiche conseguenze del riposizionamento di quella linea: l’esodo istriano, le proprietà rimaste “dall’altra parte”, le famiglie scisse senza rimedio. Ma anche per chi questi drammi li aveva vissuti “di striscio”, come quelli della mia generazione, nati “americani”, cioè all’epoca del Governo Militare Alleato, e per quelli arrivati dopo, la presenza del confine determinava un modo di pensare se stessi, aggrappati sulle estreme propaggini non soltanto del nostro Paese, ma di un mondo del tutto diverso da quello che potevamo sbirciare oltre le sbarre che regolavano il transito dei varchi confinari.

Godevamo tutti del dubbio privilegio di possedere un documento in più, la propusnica, lasciapassare per l’ex Zona B, che ci dava accesso a modeste occasioni di modestissimi scambi commerciali, primo tra tutti il pieno di benzina, e di risibili contrabbandi: un chilo di carne nascosto sotto il sedile delle nostre Seicento, una stecca di sigarette molto peggiori di quelle in vendita da noi, un litro di slivovitz. Più tardi, in senso inverso, si sarebbe aperto un flusso inarrestabile dapprima di caffè, di detersivi, di bambole di celluloide, poi di oro e di jeans, che partendo dal Ponterosso o dal Borgo Teresiano arrivava probabilmente a Vladivostok, ma questa è un’altra storia.

Se a Trieste la presenza del confine era così pervasiva da rendere superflua la lettura dei sacri testi della letteratura di frontiera, di Tomizza o di Magris, a Gorizia quella presenza era davvero costante e ineludibile, con la demarcazione che attraversava l’immediata periferia della città, segando in due vie e piazze, attraversando persino un piccolo camposanto dei dintorni. Mi resi conto di ciò ritornando a Gorizia, dopo due anni di scuola a Trieste: ospitato nel convitto “Dante Alighieri”, che nel frattempo aveva lasciato la fatiscente sede di Via Orzoni per occupare il ben più razionale e ristrutturato edificio adiacente al valico internazionale della Casa rossa.

Le vicende di quella istituzione e alcune storie di quanti a vario titolo vi transitarono, sono state raccolte a cura dell’allora Rettore, Guido Scarel, in un volume del 2009. Fu proprio l’ottimo Scarel, con evidente compiacimento, ad accompagnarmi nella visita ai locali del collegio e – in particolare – al grande parco alle spalle dell’edificio, che includeva un campo di calcio ed uno di pallacanestro. L’intera area era chiusa da un muro sopra il quale un’alta rete aveva la funzione di interdire il passaggio ai palloni troppo alti nelle partitelle che si organizzavano nei due campi di gioco. Poteva apparire sovrabbondante l’altezza di quella recinzione, se non fosse che essa segnava il confine di Stato: di qua eravamo noi, ed era la Repubblica italiana, di là la Federativa Repubblica di Jugoslavia, e dietro ad essa, forse, anche il Deserto dei Tartari.

Per quattro anni vissi a diretto contatto con quel confine: ogni mattina aprivo le imposte della camerata e guardavo la collina che sfoggiava i suoi cangianti colori, scandendo la successione delle stagioni che alla fine di ogni ciclo, giunta l’estate, preludeva al “liberi tutti” della fine dell’anno scolastico. A dividerci da quella collina, ancora una volta, il muro di confine e, adiacente ad esso, la massicciata di una ferrovia che, di lì a poche centinaia di metri, conduce alla stazione ferroviaria della Transalpina, un simbolo della mutilazione dello spazio urbano di Gorizia, con la piazza antistante lo scalo, all’epoca tagliata in due da un reticolato.

Lungo la ferrovia passavano dei militari con un fucile mitragliatore a tracolla, e talvolta si fermavano a guardare qualche azione delle nostre partite. Vi era un che di sinistro in quelle intermittenti presenze, che facevano sembrare il gioioso spazio del nostro tempo libero un reclusorio soggetto a vigilanza armata. Capitava che qualche volta un pallone tirato troppo in alto sorpassasse la rete e finisse “di là”; attendevamo allora che passasse il graniciaro cui pregavamo di restituirci la palla. Di norma lo faceva di buon grado, contento forse di essere con un poderoso calcio parte del nostro gioco. Qualche volta, invece, recuperata la palla, se la portava via sottobraccio, rivolgendoci una risata beffarda.

Esistono molte convincenti ragioni per considerare abominevole un confine. La prima che a me viene in mente è sempre quella del furto di un pallone.

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