Michela Marzano: «Sogno il giorno in cui non esisterà la Festa della donna»

Nella Giornata internazionale una riflessione della filosofa e docente all’Università di Parigi

sulle discriminazioni, la violenza, la perdita dei diritti e i tranelli del linguaggio

Mary Barbara Tolusso
16/09/2018 Modena, festivalfiolosofia 2018. Michela Marzano, filosofa, accademica e saggista italiana.
16/09/2018 Modena, festivalfiolosofia 2018. Michela Marzano, filosofa, accademica e saggista italiana.

TRIESTE. Michela Marzano ha le idee chiare. La celebre filosofa, che da anni vive a Parigi dove insegna all’Università René Descartes, si è sempre occupata della fragilità della condizione umana, con un occhio di riguardo alle donne. Tuttavia sa anche individuare con lucida oggettività gli insidiosi tranelli che si celano dietro un eccesso di “protezione”. O di celebrazione. Non teme infatti di dire che l’8 marzo, tutto sommato, è un’arma a doppio taglio, disvela un problema che ancora esiste e persiste: la discriminazione femminile.

Per rubare un suo titolo, l’Italia di oggi offende ancora le donne?

«Tendenzialmente sì. Ci sono varie forme per offenderle, non solo in modo esplicito come all’epoca di Berlusconi. Le si offende quando non si riesce a contenere il fenomeno delle violenze e non viene fatto nulla a livello educativo. Sappiamo bene che l’aggressività non può essere arginata soltanto punendo i colpevoli, ma soprattutto prevenendola con un’educazione che deve avere inizio fin dalle scuole primarie. Le si offende anche perché, diciamolo, non sono ancora prese sul serio. Per fare un esempio, banale ma anche significativo, io sono felicissima che sia stato rieletto Mattarella, tuttavia durante le votazioni del presidente della Repubblica, ogni qual volta si è parlato di una donna era per bruciarla. E badi che io sono sempre stata contraria alle quote rosa, le donne non sono “quote”. Il problema è essere viste, lottiamo ancora per la nostra soggettività».

Infatti non c’è ancora una legge sul doppio cognome...

«L’Italia è l’unico paese in Europa in cui non c’è la possibilità di trasmettere ai figli il doppio cognome o il solo cognome materno, con posizioni estremamente chiuse sia dalla destra che dalla sinistra».

Secondo lei la scarsa rappresentanza femminile nei dipartimenti accademici è un problema ancora aperto?

«La questione degli ambienti accademici è molto più bassa perché siamo all’interno di un contesto quasi feudale. Sul problema delle donne si parte sempre da un ampio raggio di studentesse molto brave, che tuttavia diminuiscono di numero al dottorato e così via fino al ruolo di professore ordinario. Si riproduce insomma a livello accademico una gerarchia maschile».

Nel suo ultimo romanzo, “Stirpe e vergogna”, lei ha ridelineato il percorso che l’ha resa la donna che è oggi. Quindi come donna con cos’è che ha fatto i conti?

«Ho fatto i conti con un maschile particolarmente ingombrante. A volte mi ritengo una sopravvissuta. Sono cresciuta nel tentativo disperato di un riconoscimento paterno. Da qui tutta una serie di problematiche e un senso di inadeguatezza, contro cui naturalmente ho lottato. In “Stirpe e vergogna” c’è stato poi il tentativo di andare al di là della mia persona per cercare di capire il rapporto che aveva mio padre con il suo».

Si festeggia la donna ma, nel frattempo, in Afghanistan si è tornati indietro di secoli. Sarà possibile un recupero, e quando, dei diritti perduti?

«Quando si perdono i diritti, poi bisogna ricominciare sempre da capo. Siccome tutte noi non abbiamo ancora conquistato gli stessi diritti che hanno gli uomini, bisognerebbe cercare almeno di preservare quelli già acquisiti. A proposito dell’8 marzo, la popolare festa della donna, ho la sensazione che finché noi celebreremo questa festa ci saranno ancora delle rivendicazioni da ottenere. Io sogno il giorno in cui non ci sarà più la festa della donna».

A meno che non ci sia anche una festa dell’uomo...

«Infatti mica c’è, non è trattato come una specie protetta. Ecco, io da donna non vorrei più essere un problema, vorrei avere gli stessi problemi che hanno gli uomini, ovvero quelli dell’esistenza umana».

Si sa che il linguaggio cela delle dinamiche di potere. Come potrebbe aggirarle, oggi, la donna?

«Il linguaggio è importantissimo, in primo luogo perché solo quando si nominano, le cose esistono. Ciò spiega perché io sono perfettamente d’accordo nel coniugare alcune parole anche al femminile, da avvocata a sindaca ad assessora e così via».

E della schwa che mi dice?

«Ho qualche perplessità. Il dubbio è che con la schwa siano ancora una volta le donne ad essere tagliate fuori. È un tipo di inclusività che paradossalmente rischia di essere esclusiva, prendiamo le persone che hanno difficoltà di dislessia, per esempio. È proprio una faccenda di buon senso. Aspetto ancora che i ragazzi più giovani mi spieghino perché, semplicemente coniugando le parole al maschile e al femminile – come “buongiorno a tutte e a tutti” – non sarebbe incluso chiunque. Certo c’è la dimensione del non binary, ma di fatto il non binario prevede, nei vari momenti della transazione, un’inclinazione verso un genere o l’altro».

C’è qualcosa da imparare dagli uomini?

«Tendenzialmente direi di no. Io ho la sensazione che quando ci vengono date le loro stesse opportunità, noi donne facciamo le cose meglio. Non abbiamo granché da imparare da loro, anzi, direi il contrario. Potrebbero imparare da noi anche la dimensione del dubbio, non avere sempre la granitica certezza di essere nel giusto, così poco corrispondente alla complessità del mondo e del reale».

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