“Meglio dal vivo che dal morto”, è autobiografico il nuovo libro di Paolo Rossi
«Sono pentito, William. Sono pentito ma mi sono divertito. Come dice il mio amico Cinaski, chi è senza peccato... non ha un cazzo da raccontare». Ed è realmente concepita come una lunga confessione, spassosa e intrigante, quella che si snoda attraverso il nuovo libro di Paolo Rossi da giovedì 18 marzo nelle librerie: "Meglio dal vivo che dal morto", che esce per la milanese Solferino nella collana diretta da Gino&Michele "Stand up" (pagg. 288, euro 16).
Una confessione piena resa da uno dei giullari più irriverenti e caustici del nostro tempo direttamente al Bardo "dio dei contastorie" William Shakespeare, subito invocato in una preghiera propiziatoria fatta - ovviamente - a rovescio: «inducici, spintonaci, frantumaci, slogaci in tentazione», supplica Rossi, e non liberarci dal male «che se no non avremmo più storiellette da raccontare per far piangere, per far ridere, per far cantare quelli che ci mantengono». E di storie il libro ne inanella a raffica, in origine i peccati da espiare del comico («Tutto, stasera confesso tutto, amico mio») che si trasformano in aneddoti ironici e beffardi in cui guizza la zampata sferzante e cinica tipica dell'autore.
Tre mogli, figli «distribuiti in maniera equilibrata e solidale», diventato nonno, Rossi il mattatore alterna così storie universali e senza tempo mentre ne attualizza altre sintonizzandole sull'onda della pandemia. Da confessare c'è tanto, anche perché «per fare l’attore non si può essere bravi ragazzi».
Lui in primis si è formato giovanissimo in una vera e propria «palestra di follia» come viene definito il Derby, tempio del cabaret milanese dove albergava la malavita e passavano tutti i grandi di quegli anni, dal grande amico Enzo Jannacci - evocato anche nella chiusa al ritmo di "quelli che..." - a Paolo Villaggio, da Cochi e Renato a Felice Andreasi passando per Carmelo Bene e i migliori jazzisti del tempo. Anni surreali, li definisce, e al di là dell'aneddotica irresistibile (il gangster che lo obbliga a farlo ridere minacciandolo con tanto di pistola, la retata per droga indotta proprio da un ignaro Rossi, lui che esce a notte fonda da una "ludoteca per adulti" insieme a un famosissimo di allora che, per crearsi un alibi con la moglie, si lancia direttamente nel Naviglio).
Si ride ma si gode anche di un affresco potente su un mondo ai margini che è stato e non è più, una palestra di vita «ribaltata, dove dal nostro mondo a rovescio osservavamo il mondo cosiddetto diritto per poterlo mettere in scena». Fluidamente si approda a una riflessione più ampia sul mestiere dell'attore, sull'alto e sul basso, sul fare cabaret «subito dopo aver recitato una tua tragedia, caro Shakespeare, al Teatro dell’Elfo, anche per arrotondare lo stipendio: perché la serietà è un requisito indispensabile per saper ridere».
Nè mancano le serate tragicomiche alle Feste dell'Unità, il cimitero con i defunti interisti a partire dalla madre ("Quella sera del Triplete"), il cane antidroga che gli viene regalato seminando panico ovunque, perfino Trieste (la leggenda del cane blu, l’unico in grado di resistere alla Bora che di lui è innamorata).
Corrosivi, i "Racconti Neuropandemici", graffiano sul dramma dei teatri chiusi. «Non sono un attore in streaming, nel senso che sono favorevole alla masturbazione, ma non a quella sovvenzionata dallo Stato» è l'esordio. Messaggi ancora più inequivocabili a "Franceschi...ello", come il comico chiama il ministro della cultura, alias "il re della s-cultura" per la decisione di aver chiuso per sempre i teatri ma di aver tenuto aperti i musei. Musei nei quali Rossi, colui che da sempre porta l’arte scenica in cortili, piazze, tendoni da circo in Romagna, si era esibito dribblando il divieto con genio beffardo. «Dai tempi della commedia dell'arte gli attori sono gente che deve essere sempre un passo avanti al proprio tempo», dice infatti, e la reattività è oggi più che mai nel suo dna a resistere a questi «tempi inquieti ma interessanti». —
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