Mario Andretti, dai carretti di Montona alla Formula 1: storia di un profugo sempre in pista
TRIESTE A raccontarla tutta, la vita di Mario Andretti, ci vorrebbe un libro di mille pagine. Gli dedicassero un film, un biopic come si usa adesso anche per i contemporanei, non basterebbero un paio d’ore. Perché Mario Andretti di vite ne ha attraversate più d’una. Lo strazio di lasciare l’Istria. Il sogno americano. La gloria nel mondo dei motori. Una maturità da patriarca, leggenda vivente, in un posto dal nome che è già una suggestione. Nazareth.
Da Montona alla Pennsylvania. Dalle corse con i carretti giù a rotta di collo per le stradine dell’Istria al circuito di Indianapolis. Dai sogni di un ragazzino a una popolarità senza confini. Negli Stati Uniti tutti sanno chi è mister Andretti.
Un ragazzo di 81 anni, compiuti lo scorso 28 febbraio, cui mezzo secolo dall’altra parte del mondo non è bastato per annacquare la cadenza dialettale. Il sindaco del Libero comune di Montona in esilio, del resto, non si fa vanto del titolo per caso. Un riconoscimento di cui va fiero quanto dei trionfi sulle piste.
Il romanzo di Mario Andretti comincia tra le strette vie di Montona. Accanto alla vecchia chiesa di San Cipriano una targa ricorda la casa degli Andretti. Quando - e non capita così frequentemente come vorrebbe - il campione torna in Istria porta con sè qualche nipote. Lo conduce nel suo viaggio tra i sentimenti. Qualche anno fa lo abbiamo seguito in una di queste rimpatriate. In quell’occasione Andretti, accompagnato dalla moglie Dee Anne (scomparsa qualche anno fa) e dal figlio Michael, aveva voluto con sé anche il nipote Marco, pilota di IndyCar con archiviati sogni di Formula Uno. Lo aveva scortato lungo le strade di Montona raccontandogli il paese della sua giovinezza. Due immagini sovrapposte: l’attuale Motovun e la “sua” Montona italiana. Lo sguardo si soffermava su una stradina in discesa. «Giù di qua sfidavo mio fratello Aldo con i carretti. Provavamo un po’ l’ebbrezza della velocità. A casa non avevamo l’auto. Eravamo gente semplice, campagnola. L’unico motorizzato era zio Bruno e per noi era una specie di eroe. Possedeva una motocicletta. Tutto è cambiato rispetto alla Montona in cui sono cresciuto, persino il corso del fiume Quieto. Passeggio e non ritrovo i luoghi dei miei ricordi. Il forno dove noi bambini respiravamo l’odore del pane, la prima casa dei miei genitori. Ma questa è la mia terra e voglio che i miei figli e i miei nipoti la vedano. Per me è un dovere mantenere sempre vivo il legame con il luogo dove sono nato».
Andretti non ha mai voluto raccontare troppo dei giorni dell’abbandono di quella terra. Lo ha fatto con i nipoti, ma cercando di far emergere comunque segnali di speranza. «Ai miei figli ho raccontato tutto dei miei anni in Istria. Non ho risparmiato loro le pagine più amare, come la dolorosa partenza da Montona. Noi italiani costretti ad abbandonare la nostra casa. Ma ho sempre cercato di trovare un risvolto positivo anche nelle situazioni peggiori. Succedeva anche quando mio padre, scoraggiato, non riusciva a vedere un futuro e io provavo a rincuorarlo. Ero un bambino e mi esprimevo con parole semplici. Lasciavo parlare il mio cuore».
Dall’Istria a Lucca. Dalla casa nell’Istria al campo profughi. In Toscana qualche anno fa gli hanno attribuito la cittadinanza onoraria in occasione delle celebrazioni per il Giorno del Ricordo. Andretti ha accolto il riconoscimento quasi imbarazzato. Con la semplicità del ragazzino che aveva vissuto tra gli altri profughi, oltre 60 anni prima. A Lucca è iniziato il primo contatto con il mondo dei motori. «Io e mio fratello gemello Aldo eravamo ragazzi e avevamo iniziato a parcheggiare le auto dei commercianti del centro in una rimessa. Ci lasciavano le loro Topolino e noi intanto prendevamo confidenza con i motori». Un amore che sarebbe esploso assistendo al passaggio della Mille Miglia. Un nome che evoca campioni e fascino.
Ma, poco dopo, tutto sarebbe cambiato. Sedici giugno 1955: «Un nostro zio viveva negli Stati Uniti e ci propose di raggiungerlo. Ci aveva detto che ci sarebbero state quelle opportunità che in Italia forse non avremmo avuto. Un giovedì la nostra nave passò davanti alla Statua della Libertà. La guardammo incantati. Un’altra vita stava iniziando». Tra le opportunità, anche quella di cominciare a fare sul serio. La passione per i motori non poteva rimanere soffocata, costretto a un ruolo da semplice spettatore. «Per gareggiare io e Aldo dovevamo avere 21 anni, in realtà ne avevamo solamente 19 ma truccammo i documenti pur di poter scendere in pista». Anche Aldo sarebbe potuto diventare un grande pilota. Il destino ha deciso diversamente. Nel 1959 rimase coinvolto in un incidente in corsa che lo vide per quattro giorni in coma. «Chiesi ai medici come potessi aiutarlo. Mi suggerirono di parlargli. E io, seduto accanto a quel letto in ospedale, parlai per ore di motori». Aldo, con la forza d’animo degli Andretti, ricominciò a correre ma dieci anni dopo un nuovo terribile schianto contro una rete di recinzione gli fece nuovamente vedere la morte in faccia. Lasciò il volante, si dedicò al commercio di pneumatici rimanendo vicino al gemello. Aldo è mancato l’anno scorso. Mario lo ha ricordato con semplice intensità. «Una parte di me muore con Aldo, il mio adorato fratello. Sono senza parole».
Aldo ha accompagnato Mario nei suoi successi. Un titolo di campione del mondo in F1 nel 1978. L’esperienza alla guida della Ferrari. Dodici Gran Premi vinti. Campionati Cart. La 500 miglia di Indianapolis. Una popolarità planetaria. L’amicizia con personaggi dello show business come Paul Newman e Lady Gaga. Negli Usa potreste percorrere la strada più periferica del paesino più remoto e se incontrerete qualcuno non vi sentirete mai dire «Andretti who?».
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