L’uomo della Provvidenza, nei giorni del trionfo era già cominciato il disfacimento del totem
TRIESTE Antonio Scurati, nel suo “M Il figlio del secolo”, aveva lasciato Mussolini, Presidente del Consiglio, mentre il 3 gennaio 1925 entrava in Parlamento a pronunciare il famoso discorso in cui si assumeva tutta la responsabilità storica del delitto Matteotti. Da qui lo scrittore riparte, per raccontare come quell'incarico istituzionale sia stato gradualmente trasformato in dittatura, senza incontrare resistenze, né da parte della monarchia, nella quale confidava invece una sparuta opposizione, né di un Parlamento intimorito dalle reazioni violente dei fascisti. A colpi di "maggioranza" anche l'organo costituzionale italiano che presiedeva si era trasfigurato in quel Gran Consiglio, che M finì per gestire totalmente. A lui andava ovviamente anche il consenso delle piazze, opportunamente manovrate dai media dell'epoca e ipnotizzate dalla capacità oratoria e gestuale di un uomo che anche il Vaticano, risolta la questione romana con i Patti lateranensi, non esitò a chiamare "della Provvidenza".
“M L'uomo della Provvidenza” è infatti il titolo del nuovo poderoso "romanzo" di Antonio Scurati (Bompiani, pp. 656, euro 23). Dal punto di vista di una ricostruzione accertata non ci sono novità sostanziali rispetto alla mole di studi che su questo periodo si è prodotta, ma il taglio letterario permette anche di entrare nell'animo di un personaggio che ha imboccato, con ovvie varianti, il percorso classico del "tiranno". Costellata di crimini è infatti la scalata al potere sua e dei suoi cortigiani, desiderosi di riscattare la loro umile condizione d'origine: il capo vive così tra violenza e adulazione, tra la sottomissione a incontrollabili lotte intestine e proclami autoritari, tra la consapevolezza di avere al proprio fianco un'accolita inadeguata e la necessità di sostenerla, tra la vanità di esibire al mondo risultati economico-politici tale da destare ammirazione e la consapevolezza di doverla far pagare a un popolo da ingannare. Il Duce insomma è condannato a una solitudine solo in parte confortata dagli affetti famigliari, spesso fonte di noia.
Scurati non fa sconti nella rievocazione dei crimini commessi, prima durante e dopo il passaggio dalla fase rivoluzionaria all'assestamento istituzionale in un regime che offriva di sé l'immagine di una trionfale normalizzazione. Cosa si celi poi dietro ai tanto decantati successi coloniali lo rileva in una narrazione assai dettagliata dei tempi e modi in cui venne riconquistata la Libia da parte del generale Graziani, che si guadagnò il titolo di "macellaio di Fezzan". Né si astiene dal marcare, al contrario, l'eroismo di Omar Al Mukhtàr, l'anziano condottiero del popolo senussita che aveva osato gabbare la potenza fascista e che viene ricordato come il "leone del deserto".
Lo scrittore chiude la narrazione nel 1932, decennale della marcia su Roma, lasciando Mussolini nell'atto di visitare l'imponente Mostra della Rivoluzione fascista. E non c'è dubbio che l'Italia fosse stata davvero mutata, nelle sue istituzioni, nei suoi valori, nella sua architettura, nella sua classe dirigente e in tanto altro. Anche il corpo di chi aveva compiuto quella metamorfosi aveva subito delle trasformazioni, se da greve fonte di miasmi all'inizio del racconto, si era poi risanato per diventare, grazie a una campagna mirabilmente organizzata, un sacro totem cui il culto è dovuto. Ovviamente il suo trionfo non poteva non covare i germi del disfacimento futuro: non aveva mai smesso di funzionare infatti quella macchina del fango che nell'innalzare sempre più in alto il dittatore ha travolto non solo i suoi oppositori, ma anche i suoi seguaci, impegnati, chi più chi meno, in un reciproco gioco al massacro.
Ma l'idolo deve alimentarsi di sacrifici continui, e allora M rinnega antichi e generosi amori, come Margherita Sarfatti, mette fuori gioco culture con cui si erano strette alleanze, come l'Azione cattolica, lascia cadere le teste dei fedelissimi, come il segretario nazionale del Pnf Augusto Turati, non ostacola personaggi che pur disprezza, come Storace e Farinacci. Il prezzo è alto, ma il narcisismo è inesausto, anche se il finale è scontato, essendo già stato scritto tante volte nella storia. Se il tiranno, dopo tanti anni, non può permettersi di sciogliere le sue milizie, ristabilire le libertà, ridare voce ai partiti, dovrebbe ben sapere che non potrà rimanere a lungo vincitore. —
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