Lidia Bastianich: «A Trieste ho vissuto per due anni in un campo profughi»
Sabato la celebre chef e autrice del volume “Il mio sogno americano” ospite del Salone del libro
dell’Adriatico orientale in piazza Sant’Antonio per raccontare la sua esperienza
TRIESTE Fin da piccolissima amava correre dietro alla nonna per raccogliere erbe nell'orto. Da bambina a dieci anni, profuga a Trieste, si ritrova ad aiutare in cucina le suore da cui andava a scuola. Oggi, chef internazionale, scrittrice di successo, ristoratrice e personaggio della televisione americana, continua ad essere legatissima alla sua Istria e anche a Trieste, in cui ritorna appena può. Lidia Bastianich, sorridente, volitiva e vulcanica, è in città per partecipare alla Bancarella, il Salone del Libro dell'Adriatico orientale.
Venerdì è stata ricevuta in Municipio dal sindaco Di Piazza e sabato 25 settembre alle 17 presenta in piazza Sant'Antonio il suo libro “Il mio sogno americano” intervistata da Francesca Angeleri.
«Sono nata a Pola - racconta Lidia Bastianich nella sala lettura dell'hotel Savoia - e ci ho vissuto fino ai miei dieci anni ma frequentavo Trieste perché ci vivevano diversi parenti. In particolare una zia che abitava in via Rittmeyer ed era una gioia andare a trovarla. La città negli anni Cinquanta per me era stupenda, da bambina mi colpivano tutte le luci che la illuminavano di sera, ero entusiasta del gelato, delle bancarelle, dei mercati pieni di prodotti. Io vivevo in Istria, nell'allora Jugoslavia, dove tutto era diverso, e a Trieste si respirava proprio un'aria libera, entusiasmante».
Poi ci è tornata in tutt'altra condizione.
«Nel 1956 rieccomi qui ma come profuga. A me, a mia madre e a mio fratello avevano dato il visto per venire in Italia ma a mio padre no. La scusa era quella di accudire la zia malata ma lei stava benissimo. Dopo due settimane mio padre ci ha raggiunti e allora abbiamo capito che non saremmo ritornati più a casa. Mi è venuta una forte nostalgia perché avevo lasciato la nonna e gli amici senza salutarli e ciò mi ha rattristato molto».
I suoi genitori hanno gestito le pratiche per registrarvi come profughi.
«Loro avevano deciso di emigrare in Canada o in America e quindi ci si aspettava una nuova vita. A Trieste la polizia ci ha destinati al campo profughi che era stato allestito alla risiera di San Sabba. Ci siamo rimasti due lunghi anni. Mi ricordo che il posto era come una grande caverna con una corte sterminata e triste. C'erano persone che arrivavano da tutto l'Est dell'Europa e si parlavano le lingue più diverse che io non capivo e non era facile fare amicizia con altri bambini. Bisognava mettersi in fila per ricevere la propria razione di cibo che poi si consumava su tavoloni lunghissimi e freddi: mi è rimasta una sensazione davvero sgradevole di quel periodo, un senso di insicurezza difficile da gestire per una bambina. Ma per fortuna ogni domenica potevamo uscire e si andava a casa della zia che cucinava per noi».
E la scuola?
«Mia madre, che era insegnante di scuola elementare, in quel periodo seguiva un bambino autistico, il figlio della signora Leonori che possedeva un negozio di stoffe: questa signora, in cambio, pagò la scuola per me e per mio fratello. Così cominciai a frequentare la scuola delle suore canossiane in via Rossetti. Mi sentivo diversa perché il mio italiano non era buono, parlavo il dialetto istro-veneto. Comunque lì dalle suore ho cominciato ad aiutare in cucina, pelavo le patate, tagliavo le mele, facevo tutto quello che serviva: all'ora di pranzo davo una mano alle cuoche e poi ritornavo in classe a studiare. Mi fermavo anche la sera per la cena e poi mia madre veniva a prendermi e tornavamo a San Sabba».
Ha la cucina nel sangue.
«In effetti mi ci sono sempre dedicata, anche da piccolina con mia nonna che a Pola aveva gli animali e l'orto. E poi la zia di Trieste era una bravissima cuoca e ogni domenica a casa sua mi mostrava i trucchi dietro i fornelli: in particolare aveva un talento per preparare la cacciagione e mi ricordo i fagiani che pendevano nella sua cucina e io l'aiutavo a pulirli. L'assistevo anche nel preparare i guazzetti».
Anche dopo essersi trasferita in America ha continuato a venire a Trieste.
«Sì, l'ho frequentata sempre negli anni e l'ho vista cambiare. Ogni volta che ritorno sono grata per questa città che sento davvero mia, un posto accogliente, bellissimo per il mare e per la posizione».
Qualcuno dice che assomiglia a New York.
«È vero, le due città hanno un'aria simile, entrambe aperte a tutti. In più Trieste è una città di frontiera e questo la rende affascinante, anche se le frontiere stanno scomparendo per fortuna».
Quando è a Trieste cosa ama mangiare?
«Sempre il pesce, e poi il radicchio primo taglio, i fagioli, la jota. Mi piace andare a mangiare la porzina col cren o la trippa da Pepi o da Giovanni».
Nel suo ristorante di Cividale, al momento chiuso, propone una contaminazione di cucine.
«Sì, io credo di essere un contatto tra due mondi: sono nata in Istria e ci sono molto legata ma amo l'America che mi ha formata e mi ha permesso di diventare qualcuno. Cerco di mettere insieme queste due culture. In America cerco di comunicare attraverso il cibo: gli americani adorano l'Italia e il cibo italiano che per loro è il cibo etnico numero uno. Oltre ai ristoranti, anche i giornali e la televisione trattano sempre di più la cucina italiana anche perché non tutti possono permettersi di viaggiare. Grazie a me i profumi e i sapori della nostra cucina entrano nelle loro case».
Adesso propone le cucine regionali.
«Con il ristorante Felidia mi sono occupata della cucina italo-americana, ora in tv e coi libri tratto la cucina regionale italiana che per me significa portare in tavola la jota, gli gnocchi col gulash, la polenta, i crauti. Ma la cultura del nostro cibo va anche spiegata e questo mi viene riconosciuto: in vent'anni ho vinto tre Emmy televisivi».
Il suo cibo preferito?
«Impossibile dirne uno solo: gli spaghetti alle vongole, la jota, gli gnocchi di susini».
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