Leonardo Sciascia, l’eretico che squarciò i veli del Novecento

TRIESTE «Era un uomo timido, che ti osservava un poco in tralice. Un uomo dal sorriso triste, appena accennato, che raramente si trasformava in riso, ma si capiva che non gli sfuggiva nulla»: questa la prima impressione di Dacia Maraini quando conobbe Leonardo Sciascia. Siciliana d’adozione, la scrittrice che nell’isola aveva trascorso l’adolescenza individuò nel romanziere e drammaturgo di Racalmuto un «maestro» di stile ma anche d’impegno civile, di battaglie politiche e culturali. Sciascia, di cui oggi ricorre il centenario della nascita, avrebbe voluto intitolare la fondazione a cui lasciare le sue carte a fra Diego La Matina, destinato al rogo dall’Inquisizione per oltraggio alle sacre immagini.
Una scelta non casuale: Sciascia fu un grande eretico del Novecento. È stato il narratore che, per la prima volta, ha squarciato la cortina di pudori e di omertà che circondava la mafia. È stato uno spirito anticonformista che tirerà di sciabola e di fioretto dalle colonne della Stampa e del Corriere della Sera e che susciterà polemiche con tutte le sue opere, da Il giorno della civetta a Il contesto a L’affaire Moro. Si scagliò contro il centrosinistra e il compromesso storico e contro i santuari del potere: dalla Dc al Pci (a cui aveva dato il suo sostegno da quando aveva 20 anni), dalla Chiesa alla magistratura prona alle ragioni della politica e non della giustizia.
In nome del sacro rispetto per la «verità» interromperà legami storici con Renato Guttuso e Pier Paolo Pasolini. Pure la sua discesa nell’agone politico fu turbolenta: eletto alle Comunali di Palermo nel ’75, indipendente nelle liste del Pci, si dimetterà dopo solo due anni e poi fino al 1983 sarà deputato radicale. Tre anni dopo voterà per il Psi alle Regionali e solleciterà Bettino Craxi al ricambio della classe dirigente socialista siciliana.
Signora Maraini, Sciascia è stato un intellettuale in prima fila per l’originalità e la determinazione delle sue prese di posizione. Entrambi combattivi e entrambi «eretici», lei e Sciascia: spesso vicini, a volte lontani. Qual è la forza di Sciascia, la sua capacità di essere ancora attuale?
«Con Leonardo si poteva discutere ma il suo pensiero era sempre inatteso e imprevedibile e non nutriva mai disprezzo o malanimo. Per me fu un maestro dell’intelligenza isolana, un uomo coraggioso che osava sfidare l’orgoglio siciliano. La sua attualità è questa, nella passione per la verità espressa con un pensiero tagliente e sincero. Gli interessava anche molto indagare, oltre che sul fenomeno mafioso, sull’enigma dell’animo umano e sulle complicate coordinate sociali in cui si arrabatta il povero cittadino».
Sciascia sostenne che la Sicilia era governata da un matriarcato e vi trovaste su sponde opposte. È così?
«Affermò che il potere in Sicilia è nelle mani delle donne, che c’è un matriarcato, anche se sotterraneo. Parlando di mafia, finiva per dedurre che le donne sono all’origine di quella perversione e di quel delirio di onnipotenza. Gli risposi per iscritto. Volevo fargli capire che se le siciliane comandano in famiglia è proprio perché nel sociale non hanno nessun potere decisionale e quindi si sfogano col marito, con i figli. Spesso sono autoritarie anche perché, da millenni, la loro partecipazione alla vita economica, politica e sociale è minima. Gli ho ricordato che io, quando da ragazzina andavo a scuola da sola e uscivo con i miei compagni, ero guardata con sospetto e riprovazione; gli ho raccontato inoltre di una mia compagna di scuola che voleva andare a ballare e veniva legata al termosifone dal padre. Non credo di averlo convinto. Era cocciuto, in maniera soave e gentile, ma aveva la “testa dura come una balata”, così dicono a Palermo».
Quanto sono state importanti le opere di Sciascia per la maturazione della coscienza civile del nostro Paese?
«Sapeva raccontare con rigore e limpidezza le doppie, triple anime della politica quando si allontana dagli ideali e deve scontrarsi con la difficile pratica del governare. Gli dobbiamo molto per avere scandagliato, senza compiacimenti letterari, le realtà italiane più scomode. Ebbe, per esempio, una polemica con Guttuso e non mi stupisce. Guttuso era un comunista appassionato e fedele, mentre Sciascia era un individualista critico, pur avendo fatto profondi studi marxisti».
Il 10 gennaio 1987, nell’articolo «I professionisti dell’antimafia», sul Corriere della Sera, Sciascia affermò che l’antimafia può diventare uno strumento per fare carriera, per procurarsi il consenso del pubblico. Come giudicò quella presa di posizione?
«L’attacco ai “professionisti dell’antimafia” non mi convinse. Aveva ragione: tanti imbroglioni s’improvvisano antimafiosi, in politica o nelle istituzioni, per calcoli di facciata. Ma in realtà sono complici e sodali. In un momento, però, in cui tanti giudici, giornalisti, politici, poliziotti combattevano la mafia e rischiavano la vita non era giusto lanciare quell’accusa».
Per dimostrare le ingiustizie del presente, Sciascia utilizzò il racconto storico: un segno di modernità?
«Il suo modo di entrare nella storia, con gli occhi spalancati e le orecchie tese, è un esempio per i giovani di oggi. Sapeva narrare la corruzione e la violenza che si nascondono sotto la facciata perbenista delle istituzioni. Era illuminista: nutriva una grande fiducia nel futuro e nell’uomo, se informato e educato. Ma era un pessimista come Tomasi di Lampedusa, consapevole che si può “cambiare tutto per non cambiare niente”. Ogni grande scrittore è difficile da definire. Sciascia era Sciascia e lo si ammira per i magnifici libri che ha scritto». –
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