Le tre piste del giallo di Winckelmann: indagini ancora aperte sull’omicidio del 1768

TRIESTE Fosse successo oggi Carlo Lucarelli ci avrebbe fatto una puntata dei suoi Misteri d’Italia, con tutta quella storia di intrighi mai risolti e con il Vaticano, forse, di mezzo. E non parliamo delle trasmissioni più nazionalpopolari, come ci avrebbero sguazzato adombrando un “delitto a sfondo omosessuale”.
Ma anche allora, l’omicidio di Johann Joachim Winckelmann, avvenuto nel giugno di 250 anni fa a Trieste ad opera di un cuoco toscano dai precedenti oscuri, non mancò di accendere interessi, fantasie e pruderie morbose. Di quell’assassinio, col povero archeologo trovato agonizzante in una pozza di sangue nella sua stanza d’albergo in piazza Grande, già mezzo strangolato da una corda, e che ci mise alcune ore di sofferenze prima di morire, si parlò con gran clamore nelle capitali europee. Meno, anzi per nulla a Trieste, che allora, a un cinquantennio appena dalla proclamazione del Porto franco e con l’ascesa del piccolo borgo che si affacciava sulle saline ancora da cominciare, ignorava la fama del morto. Eppure quel fatto di sangue fu, avrebbe riflettuto Bobi Bazlen, “culturalmente il primo avvenimento inportante successo a Trieste” . Il che la dice lunga su come doveva essere la città prima di quel 1768.
Ma l’Europa colta e cosmopolita che il Settecento dei Lumi aveva contribuito a forgiare non solo conosceva bene il fondatore della moderna storia dell’arte, lo sentiva come parte di sé. Winckelmann stesso si percepiva come parte di una “repubblica delle lettere” costituita da amicizie e conoscenze influenti. Questa rete che riuniva nobili colti, bibliofili e studiosi della antichità, costituiva una sorta di baluardo contro l’instabilità del quadro politico internazionale e le possibili oscillazioni della sua fortuna personale, così come un bacino di relazioni utili a sondare il proprio successo o i limiti della sua notorietà nei vari angoli d’Europa. Prendiamo queste parole dall’intervento di Elena Agazzi, docente di letteratura tedesca all’Università di Bergamo, che insieme a quello di un nutrito gruppo di studiosi compone il volume “Trieste 1768: Winckelmann privato” (Edizioni Università di Trieste, pagg. 325, euro 22 euro), curato da Maria Carolina Foi (che insegna Letteratura tedesca all’Università di Trieste) e da Paolo Panizzo (ricercatore di Letteratura tedesca a Trieste). L’opera editoriale raccoglie i contributi di un convegno che si è tenuto a Trieste due anni fa e ha visto la partecipazione di germanisti, di enti e istituzioni del territorio, del Dottorato interateneo in Studi linguistici e letterari e degli studenti del Laboratorio Wanderung che si occupa di studi letterari e mitteleuropei.
Perché ancora tanto interesse sul “caso Winckelmann”? Perché due secoli e mezzo dopo è tuttora un cold case, un mistero irrisolto che non riguarda tanto l’identità dell’omicida, il reo confesso Francesco Arcangeli giustiziato un mese dopo in piazza Grande con il supplizio della ruota (ultima esecuzione capitale che si tenne a Trieste), ma il movente.
Tre sono i filoni, variamente indagati nel corso dei secoli, anche con contributi letterari (ne scrivono Elvio Guagnini e Federica La Manna) e cinematografici (se ne occupa Simone Costagli). C’è il tema “pasoliniano” dell’assassinio di un intellettuale molto in vista da parte di un giovane appartenente a una classe sociale umile, che mette di fronte l’archeologo e il cuoco come Pasolini e il ragazzo di vita Pelosi. Ma quanto ci sia di vero in questa tesi, al processo non venne mai stabilito con certezza. Si sa che entrambi erano di passaggio a Trieste, si erano conosciuti in albergo ed erano diventati inseparabili durante la settimana del loro soggiorno prima del drammatico finale. Invece è sempre apparso più consistente il movente, accertato come ufficiale dal processo (qui la parola è affidata allo storico del diritto Mathias Schmoeckel), della rapina. Winckelmann aveva con sè delle monete preziose (se ne occupa il numismatico Bruno Callegher) che avevano suscitato gli appetiti di Arcangeli, come lo stesso omicida ammise. Tutto risolto? Non proprio, perché nel corso degli anni ecco emergere un terzo scenario, quello che vedrebbe la morte di Winckelmann come un omicidio politico. Winckelmann, si dice, era finito in un gioco più grande di lui. L’archeologo aveva fatto sosta a Trieste, in attesa di riprendere la strada per Roma, dove risiedeva godendo della protezione del cardinale Albani, di ritorno da un viaggio che aveva fatto a Vienna, per incontrare l’imperatrice Maria Teresa. Si dice che potesse aver fatto da insospettabile messaggero tra Vienna e il Vaticano (il cardinale era un fine diplomatico) portando con sé documenti scottanti che riguardavano la Compagnia di Gesù, che Giuseppe II voleva sciogliere. Un delitto politico, insomma? Non lo sapremo mai. Certo è che l’archeologo diventerà un mito anche per quella sua morte triestina, che contribuì in modo determinante a dilatarne la fama. Winckelmann, che da figlio di un umile calzolaio prussiano, grazie al suo ingegno talentuoso e irrequieto era riuscito a dare nuova veste all’antichità, divenne una delle fonti della poetica neoclassica, influenzando i contemporanei con la sua visione della grecità come serena e olimpica armonia. —
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