La “lezione” di Trieste sui confini a New York: Finotti al timone dell’Istituto italiano di Cultura
TRIESTE Tra pochi giorni nello scintillio elegante di Park Avenue, in una palazzina in stile neogeorgiano-neofederale, sbarcherà un pezzo di Trieste, in uno dei più prestigiosi avamposti della cultura made in Italy negli Stati Uniti. Il professore padovano Fabio Finotti, da decenni a Trieste, dove insegna Letteratura italiana all’Università, è stato infatti nominato direttore per chiara fama dell’Istituto italiano di Cultura di New York, che dal 1961 opera con l’obiettivo di promuovere, sotto l’egida del ministero degli Esteri, il meglio di quanto il nostro Paese possa esprimere nelle arti e nelle scienze. Un anello di congiunzione importante tra le due sponde dell’Atlantico, in un momento particolare e complesso, con la pandemia che non allenta la presa e il prossimo cambio al vertice della Casa Bianca.
«In America attendono con ansia due insediamenti: il mio e quello del presidente Biden, ma lui arriverà solo il giorno dopo», scherza Finotti, che però è consapevole del ruolo che gli spetta, e che andrà declinato in modo nuovo, diverso, per adeguarsi alle dinamiche emergenziali del periodo. E per farlo prenderà spunto dai confini «porosi» - come ama definirli lui - delle sue terre: «Il covid e le distanze hanno cancellato molte linee di demarcazione, tra luoghi, generazioni, esperienze. Nella drammaticità della situazione stiamo imparando che le contaminazioni sono inevitabili, e non mi vengono in mente molti posti al mondo dove la storia e la geografia abbiano già svolto in tal senso un lavoro così profondo come a Trieste e in Friuli Venezia Giulia. Sono spunti che vorrei tradurre in iniziative concrete».
Professore, quando si insedierà e che situazione la attende?
«Inizierò il 19 gennaio e lavorerò con una quindicina di persone, tutte molto preparate. L’Istituto, precedentemente guidato da Giorgio van Straten, è rimasto per quasi un anno e mezzo senza direttore, retto da un funzionario capace come Paolo Barlera. Quello che mi porta a New York è stato un percorso complesso. Prima una lunga selezione, poi i tempi dilatati della burocrazia italiana: oltre alla Farnesina, infatti, la competenza ricade su altri quattro ministeri, quello dell’Università, dell’Economia e per i Beni culturali. Diciamo che le procedure non sono proprio immediate…».
Per lei non è la prima esperienza di rilievo negli Stati Uniti.
«Non lo è in campo accademico, perché oltre a insegnare a Trieste a Pola, e a coordinare la laurea magistrale in Italianistica interateneo Trieste-Udine, sono professore emerito di Italian Studies alla Pennsylvania University di Philadelphia. Sono presidente internazionale dell’Aislli e ho fatto parte di diversi enti e centri di ricerca internazionali (come il Board of Trustees dell’Issnaf e il Comitato per la lingua italiana nel mondo del ministero degli Esteri, ndr.). Quindi è da tanti anni che viaggio tra Italia e America, ma questo è un impegno decisamente nuovo, entusiasmante».
Quanto rimarrà a New York?
«L’incarico dura dai 2 ai 4 anni».
Non la preoccupa arrivare negli Usa in piena pandemia da covid 19? New York è stata duramente colpita in questi mesi.
«New York, come molte altre città, risente degli effetti della pandemia in modo pesante, ma è un luogo straordinario e senza eguali, dove si coagulano creatività e grandi professionalità. Sono certo che rifiorirà presto».
Ma l’attività dell’Istituto dovrà limitarsi alle piattaforme virtuali, almeno in una prima fase.
«Sì, ma questo non è necessariamente uno svantaggio. Il lockdown, le chiusure, il distanziamento ci hanno costretti a mettere in campo una serie di innovazioni che possono rappresentare delle opportunità. Pensiamo a grandi eventi come la Prima della Scala o il festival Donizetti Opera di Bergamo: non hanno mai avuto così tanti spettatori all’estero, anche negli Stati Uniti. Un uso intelligente della tecnologia ci può permettere di raggiungere uditori nuovi e vasti: la lezione del lockdown non va buttata, perché in futuro potranno coesistere diverse tipologie di fruizione della cultura».
Ha già in mente alcuni progetti?
«Proporremo eventi che parlino della grandezza dell’Italia, dalla letteratura al teatro alla moda, senza dimenticare la scienza e la tecnica, campi nei quali esprimiamo grandi eccellenze. Tutti gli eventi avranno un comune denominatore: il dialogo tra generazioni, perché questa pandemia ha messo in luce la necessità che tra le generazioni vi sia maggiore solidarietà».
Ci sarà anche un po’ di Trieste in questi eventi?
«Certo. Credo che Trieste, con i suoi confini porosi, rappresenti un esempio straordinario di ciò che significa superare frontiere e steccati, non solo geografici, ma anche anagrafici, culturali. Le contaminazioni che hanno reso la città ciò che è oggi, e le sue vicende storiche difficili e dolorose, non possono non trovare posto nella lettura contemporanea dei confini e delle barriere. Per questo vorrei coinvolgere le Università di Trieste e Udine, l’Università popolare, gli enti scientifici e alcune grandi realtà produttive che investono in cultura». —
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