La grande fuga dell’Ursus con l’Audax. Cronaca di un’evasione dall’anima di Trieste

Massimiliano Penazzi ricostruisce in un racconto edito da MgsPress la vicenda del 2 marzo 2011 e la storia della gru-pontone 
La fuga dell’Ursus nella foto di Sergio Beltramini
La fuga dell’Ursus nella foto di Sergio Beltramini

Gli antichi lo sapevano bene, quando si sceglie un nome si scrive già un destino. Cosa vuoi che faccia uno con un nome da schiavo? Prima o dopo cercherà di ottenere la libertà, di rompere le catene, di prendere il largo. Come appunto ha fatto Ursus, il gigantesco pontone-gru che fa ormai parte della skyline delle Rive, e che qualcuno pensò bene di battezzare come il forzuto schiavo bodyguard della regina dei Ligi, uno dei personaggi di ‘Quo vadis’, il polpettone storico dello scrittore polacco Henrik Sienkiewicz, diventato poi un ‘peplum’ di successo con Robert Taylor e Deborah Kerr.

Cosa ha fatto se non seguire il suo destino, quel 2 marzo 2011, quando ha strappato via gli ormeggi ed è filato verso il mare aperto, il vecchio Ursus? Poi, vecchio, bisogna andarci piano: intanto è più giovane di Boris Pahor, essendo stato varato nel gennaio del 1914, e poi all’epoca della fuga di anni ne aveva 97 anni, un’età veneranda, ma visto che non mancano illustri esempi di ultraottantenni che si fidanzano con signore di mezzo secolo più giovani, come non essere comprensivi con un pontone che era ormai stanco di sentirsi pensionato?

Certo, chi poi si è dovuto sbattere, sotto una bora scura che spaccava gli anemometri, per andarlo ad acciuffare per evitare che la sua esuberanza provocasse qualche sciagura, entrando in collisione con una nave o demolendo un molo, non era per niente incline alla comprensione. Come i marinai della Tripmare, guidati dal capitano Renzo de Visintini, che a bordo di quattro rimorchiatori avevano dato vita a un corpo a corpo col colosso durato otto ore, complesso e rischioso, terminato con una cattura che non era per niente scontata. Ma lo si doveva rimettere al suo posto e così si è fatto, come racconta Massimiliano Penazzi, che in “Ursus & Audax, la grande fuga” (Mgs press, pagg.80, 12 euro) ricorda ora per ora quella giornata in cui nel golfo i rimorchiatori e l’Ursus giocarono a guardie e ladri. A cominciare dalle 8 di mattina quando il pontone, ormeggiato alla banchina tra il molo IV e il molo III, sotto la spinta delle raffiche di bora che toccavano i 170 km orari, aveva cominciato ad allentare le cime. Sotto la spinta delle raffiche sparate dall’altipiano cedettero i traversini, i cavi alla lunga e gli spring di prua. La stessa cosa accadde a poppa. Il pontone aveva rotto le catene, lo schiavo era libero. La spinta finale gliela diede il vento. La gru installata sul pontone, alta ottanta metri, si stava trasformando in un’enorme vela. Restava da trovare la rotta. Per il mare aperto bisognava infilare un corridoio di 150 metri tra il molo IV e la Diga. Ursus non aveva molto spazio per passarci, visto che è largo 20 metri e lungo 50. Ma grattando con la prua contro la banchina del Molo IV il pontone si era messo sulla giusta via, e a una velocità di otto nodi era riuscito a passare indenne e a uscire dal Porto vecchio. Adesso navigava nel golfo, tirandosi dietro sulla fiancata, come un Bud Spencer d’acciaio, il piccolo Audax, un rimorchiatore in disarmo che gli era stato ormeggiato accanto.

La manovra dell’Ursus era stata perfetta. Come se dentro ci fosse un pilota in carne e ossa. O come se quel complesso di leve frutto di una cantieristica di eccellenza avesse un’anima che si fosse stufata di stare ormeggiata senza fare niente. Uno che poteva sollevare 150 tonnellate, che ha contribuito a costruire navi corazzate, a installare la copertura della capitaneria di porto, a ripulire il golfo di Trieste dai rottami disseminati dalla guerra; e poi a costruire navi passeggeri e a trasportare i motori della Fabbrica Macchine, come poteva sentirsi ora che era usato come set cinematografico, bivacco per estemporanee proteste o illuminato di rosa, seppure per nobilissime campagne contro i tumori? L’Ursus è nato per lavorare e l’ozio, anche se ripagato da una notorietà da copertina, non fa per lui.

Chissà cosa ne pensa il capitano Vladimiro de Noto, che nel 2004 lo ha salvato dalla demolizione e ne è diventato il tutore. De Noto, già capitano d’armamento della Tripcovich, cultore e custode di navi, oltre all’Ursus ha provveduto a salvare anche l’Audax, e si è impegnato in prima persona nel rischioso recupero del piccolo rimorchiatore che quel 2 marzo, staccatosi dall’Ursus, stava andando alla deriva verso Grado. De Noto, spalatino di nascita; de Visintini figlio di quel Dario comandante di transatlantici come la Raffaello e la Michelangelo: uomini di mare e di queste terre per una storia che sembra una Maldobria uscita dalla penna di Carpinteri e Faraguna. Una storia beffarda di prima della prima guerra, che potrebbe essere raccontata da Bortolo, con l’Ursus nato sotto l’Austria che se la fila e i nostromi dalmati a corrergli dietro. O forse con la sua plastica fuga l’Ursus voleva soffiarci nell’orecchio un più malandrino ammonimento: mentre il Porto vecchio invece di navi ospita dibattiti e la Via della Seta vagheggiata come la nuova promessa di traffici si dimostra una specie di ombra cinese, col suo gesto l’asburgico pontone ci invita ad andare a cercare fortuna altrove. E a scappare non saranno più solo i cervelli, ma anche le braccia. —


 

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