La storia dell’Irredentismo adriatico tra italianità e odio etnico
Il nuovo volume di Fabio Todero per Laterza ripercorre la storia del movimento individuando due correnti, una più repubblicana e l’altra da subito razzista
“La patria alla frontiera - Storia dell’irredentismo adriatico” di Fabio Todero propone un argomento ancora di stringente attualità nelle regioni confinarie. Il volume, edito da Laterza (251 pagine, 24 euro) illustra il fenomeno con ricchezza di date e di dati che l’autore distilla nel testo con grande abilità grazie alla sua scrittura chiara ed efficace.
Anche il profano può avvicinarsi a una materia complessa in cui si mescolano ragione e sentimento, perché il termine ha un significato che affonda le sue radici nella religione, di cui uno dei cardini è appunto la redenzione.
A coniarlo fu Matteo Renato Imbriani, patriota esponente del Partito radicale storico per designare le «terre irredente», territori abitati da italiani appartenenti all’Impero austro-ungarico, Trentino e Litorale. Successivamente battezzato Venezia Giulia, da Graziadio Isaia Ascoli, studioso e patriota goriziano, padre della glottologia italiana.
Subito Fabio Todero propone due visioni dell’Irredentismo: quella di Slataper secondo il quale era «elemento morale e politico del nostro paese», uno «stato d’animo» rappresentativo di un mitico spirito d’eroismo «nato quando il ciclo della rivoluzione italiana è compiuto e ormai sta formandosi quello della slava». Per lui lo “slavo” è il gigante buono che avrebbe potuto innestare nuove energie nel corpo esausto delle genti latine.
E quella di Attilio Tamaro che ne faceva non solo «la vera continuazione del Risorgimento» ma anche «la congiunzione diretta e visibile fra Risorgimento e Fascismo, attraverso interventismo, guerra e dopoguerra, e quindi Fiume e questione dalmatica».
Ma c’è un’altra concezione dell’irredentismo, fortemente critica. Quella di Angelo Vivante che – sottolinea l’Autore - aveva colto il nodo gordiano della questione: la contraddizione sussistente tra la vocazione commerciale ed economica di Trieste, indissolubilmente legata ai destini dell’Austria, e l’aspirazione ideale all’Italia: «l’antitesi tra il fattore economico – scriveva Vivante – e quello nazionale è il filo conduttore di tutta la storia triestina».
Un irredentismo razzista è quello di Ruggero Timeus che considera lo slavo «il nemico per eccellenza, bifolco, ignorante, assai spesso analfabeta, devoto ai padroni».
Nei suoi primi anni, l’irredentismo triestino – fondamentalmente repubblicano e non ancora antislavo – non si spinge oltre a pochi atti dimostrativi e iniziative culturali. La situazione muta dopo il ’48, “la primavera dei popoli” con i profondi cambiamenti nel continente. E successivamente con l’unità d’Italia nel 1860. Le manifestazioni si intensificano, diventano più rumorose per l’uso dei petardi, una sorta di bombe rudimentali, che durerà per diversi anni.
Cresce il seguito tra i giovani per l’attività nelle scuole, nelle associazioni sportive, e in quelle culturali. Si creano miti e simbolismi. Si formano organizzazioni come la Giovine Trieste, nel solco della Giovine Italia mazziniana. I contatti con i partiti nazionalisti si intensificano anche se si può palare, nota Fabio Todero, di “convergenze parallele” (copy right Aldo Moro).
La fucilazione di Oberdan, 20 dicembre 1882, colpevole di voler attentare alla vita di Francesco Giuseppe in visita a Trieste per i 500 anni dall’Atto di Dedizione, da nuova linfa agli irredentisti che godono dell’appoggio della massoneria e dei liberal-nazionali che dominano il Comune, in cui la componente ebraica è importante: tra loro Giacomo e Vittorio Venezian, Salomone Morpurgo, Salvatore Barzilai, e Teodoro Mayer.
Fabio Todero illustra le diverse tinte che assume l’irredentismo nella Venezia Giulia. Più nazionalista, antislavo e anti autonomista a Fiume e in Istria; mentre a Trieste si distinguono esponenti con forti caratteristiche socialisteggianti. L’incalzare degli eventi che porteranno alla Grande Guerra rende più forte il movimento. L’irredentismo “armato” conterà 2000 disertori dalla Venezia Giulia e 700 dal Trentino. Fenomeno che sarà ampiamente strumentalizzato dalla propaganda fascista.
Arrivata l’Italia, si avvertirà presto la delusione nella società civile giuliana se è vero che “maledeta barca” diventa presto un’espressione popolare usata per riferirsi al cacciatorpediniere “Audace”. In effetti dalla Penisola si riversa soprattutto su Trieste un flusso di nuovi immigrati in cerca di fortuna che pongono vari problemi. Con il Trattato di Rapallo poi, che ingloba nel Regno quasi mezzo milione tra sloveni e croati, crescono i rispettivi irredentismi che sfociano nelle formazioni partigiane e negli atti terroristici, repressi brutalmente dal regime e successivamente dai tedeschi.
L’irredentismo ha un ritorno di fiamma dopo la seconda guerra mondiale. Gli esponenti più significativi sono il vescovo Santin e il sindaco Bartoli. L’ultima manifestazione di questo segno a Trieste avviene il 26 ottobre 1954. —
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