In fila alla Marittima di Trieste per il casting del Padrino II: così siamo entrati nella leggenda senza accorgercene

La settimana prima di Pasqua del 1974 Francis Ford Coppola gira a Trieste il secondo capitolo della saga capolavoro
Furio Baldassi

TRIESTE «Ma chi xe ‘sto Coppola?». Non è che fossero tutti cinephile, nel 1974, a maggior ragione se eri giovane e ti eri perso il suo primo grande film, il Padrino. E non potevi neanche chiedere aiuto al web, perché non esisteva. Questo non evitò a una comunità gioiosa e multicolore di accalcarsi davanti alla Stazione Marittima e mettersi pazientemente ad aspettare il turno nel casting per il film Il Padrino parte II, diretto da Francis Ford Coppola, quando a Trieste sbarcò una delle più grandi produzioni cinematografiche mai viste in città. Fra le comparse si poteva quasi fare l’appello nominale, tra studenti universitari e delle superiori e “clape” più o meno di tendenza. C’erano quelli del Viale, del Tergesteo, dell’Ariston. E c’ero io, attirato più che dalla voglia di fama mondiale, dalla possibilità di un buon guadagno, sempre gradito da uno studente non benestante.

Neanche i social esistevano, ma c’era il tam-tam naturale, l’amico dell’amico, il barista, la parrucchiera della mamma e tutto quell’universo composito che contribuiva a fare società, in maniera meno digitale ma di sicuro molto, ma molto più umana. Era la settimana prima di Pasqua, e molti si chiedevano cosa avesse spinto un giovane regista americano, avviato verso la gloria, alle nostre latitudini.

Credo di averlo capito molti anni dopo, seduto a un tavolino del Cafè Trieste di San Francisco, proprio sotto la foto del barbuto Francis, ripreso mentre su una vecchia macchina da scrivere lavorava proprio alla sceneggiatura della saga dei Corleone. In qualche maniera Trieste gli era entrata dentro, e quando gli avevano fatto scoprire che la vecchia Pescheria centrale, Santa Maria del Guato, ora esageratamente rinominata Salone degli Incanti, sembrava la copia carbone del centro di raccolta per immigrati di Ellis Island la scelta era venuta quasi naturale.

Il casting era blindato: si entrava e usciva in pochi alla volta, anche se alle mie spalle, ormai, la coda era nell’ordine delle svariate centinaia. Da quelli che uscivano, commenti scarsi. “Mi hanno dato D”. “Io invece ho una C…” Pensai istintivamente al sistema di pagelle vigente in America ma non ebbi tempo di rifletterci sopra troppo a lungo. Arrivò una notizia decisamente più attesa: pagavano, e pagavano bene. Ventimila lire al giorno, che all’epoca, per un giovane, era un più che discreto gruzzolo.

Solo un paio d’ore e molte illazioni più tardi, capii il significato di quel sistema alfabetico: con una A lavoravi un solo giorno, con una D tutti i quattro previsti. Mi accontentai di una C, perché i posti per la prima giornata di riprese erano stati tutti accaparrati. Mi persi le scene girate in Porto Vecchio su una vecchia bagnarola all’ormeggio, la teorica nave degli immigrati, ma nei giorni successivi la Pescheria divenne la mia seconda casa. Il mio capello biondo e l’occhio verde, che facevano molto Mitteleuropa, convinsero subito la costumista ad affidarmi un ruolo da migrante austriaco. Un cappottone di panno, un cappellaccio a larga falda e una valigia di cartone fecero il miracolo: ero un altro, molto ma molto austriaco. E mi comportai di conseguenza. In fila, senza far storie, davanti a un bancone, quello degli addetti all’immigrazione, che doveva rappresentare, metaforicamente, il confine tra il passato da dimenticare e il sogno americano, che ancora esisteva.

Non notai subito Coppola, ma alla fine, dopo ore, lo intravidi, dietro a un gabbiotto di vetro che dettava, comandava, correggeva, faceva il suo. “Action!”, e si andava avanti e indietro, cercando di ritagliarsi il proprio posto nella leggenda. Mi era andata quasi bene, visto che davanti a me avevo solo un nero altissimo, con costume africano e un fez in testa e il mio amico Paolo, piazzato proprio davanti al cattivissimo ufficiale Usa che decideva chi poteva e chi non poteva, che ottenne un primo piano da brivido.

Andavamo avanti e indietro, indietro e avanti, in una fila che sembrava la metafora della vita. Poi tutto finì. “Thank you very much” e tutti a casa. Il sistema Usa non contempla l’empatia. Roba da deboli. Ci rivedemmo alla fine, tutti, al cinema, all’allora Fenice. Mezza Trieste voleva rivedersi, tra risolini, colpi di gomito e veri boati, quando si riconosceva qualcuno. La storia ci era passata davanti ma non ce ne eravamo accorti. Ma il ricordo rimane. Indelebile.

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