Il viaggio dell’irredento Samaja sotto bandiera jugoslava nelle lettere ritrovate di Svevo
TRIESTE In questi giorni la città è piena di scolaresche in gita che, fra Miramare e la Risiera, sostano al Museo Svevo affollandone fino a raggiunta capienza i piccoli ambienti. Chiassosi, colorati, i ragazzi si placano un po' di fronte all'esposizione dedicata agli scritti di Svevo sulla guerra e sulla pace, e qualche volta chiedono di approfondire i temi che vi vedono trattati: i due scoppi della guerra (quello del luglio del '14 e quello del maggio del '15), la partenza dei soldati per i due fronti, i lunghi anni di conflitto, e infine l'annessione della città all'Italia e l'attracco del cacciatorpediniere Audace al molo sempre più provvisoriamente San Carlo e via via più Audace, appunto, in un tripudio di tricolore e bersaglieri.
Da qualche giorno però quest'ultima parte cerco di prenderla un po' più larga, più articolata. Perché qualche giorno fa ho avuto la fortuna di scoprire due lettere inedite di Svevo (in fotocopia, all'interno del fondo dei documenti di Guido Almansi conservato nell'Archivio Prezzolini di Lugano) al suo amico Elio - detto Marco - Samaja, irredentista, consigliere comunale, deportato nel campo di Göllersdorf con il giornalista Riccardo Zampieri e infine membro autorevole del Comitato di Salute Pubblica che si occupò del passaggio dei poteri a Trieste.
Di questa sua esperienza Samaja racconta anni più tardi in una conferenza di cui fornisce una copia a Svevo che, appunto, lo ringrazia nel primo dei due biglietti ritrovati: «Trieste li 15 Settembre 1925. Carissimo signor Samaja, sono stato assente per qualche settimana e ricordo ora che non Le ho fatto ancora fatto i miei ringraziamenti per la copia della Sua conferenza. Passai con essa un'ora deliziosa. Raccontati con tanta sincera oggettività, quei fatti di cui fummo parte e di cui immediatamente sapevamo, furono finalmente rivissuti e, oramai, goduti. Ma ora, debbo restituirle la copia o posso trattenerla per me? Molte grazie in ambedue i casi, ma molto di più nel secondo. Suo devotissimo, Ettore Schmitz».
L'anno seguente Samaja pubblica il suo testo con il titolo “Fusione di Trieste con la Madre Patria. 29 ottobre - 3 novembre 1918” e di nuovo Svevo lo ringrazia, aggiungendo qualche parola in più: «Trieste lì 2 Dicembre 1926. Caro Samaja, Questa mane ebbi la bella sorpresa della Sua monografia tanto importante perché fa rivivere i giorni più importanti della vita di ognuno di noi con l'esattezza e la sincerità dello storico, la vivacità di chi ne fu parte importante. Nessuno può cancellare la storia. Ella rimane per noi che siamo Suoi contemporanei e perciò sicuri testimoni, il rappresentante di tutti coloro che insieme a Lei vissero, pensarono e agirono in un'epoca in cui tanti dormivano o disperavano. Con una stretta affettuosa di mano, Suo devotissimo Ettore Schmitz».
Il racconto di Marco Samaja è quello di un testimone privilegiato («parte importante» dice Svevo), del «ribalton de l'Austria», soprattutto perché, da irredentista specchiato, viene incaricato dai membri liberal-nazionali del Comitato di Salute Pubblica di rappresentarli nella delegazione che viene inviata via mare a Venezia per chiedere lo sbarco della flotta italiana a Trieste. E forse proprio perché viene da un personaggio così apertamente schierato, il suo resoconto risulta, per me che non sono uno storico, tanto interessante.
Lo sapevate che è stato un socialista (ancorché nazionalista italiano), Edmondo Puecher, a suggerire al podestà Valerio di chiedere la consegna della città al luogotenente austriaco Fries Skene lasciando tutti, ricorda Samaja «più attoniti che sorpresi»? E che la torpediniera austriaca che porta la delegazione triestina a Venezia viene messa a disposizione da un avvocato sloveno triestino, Tomasich, che chiede e ottiene di essere imbarcato come armatore? E che il comandante del naviglio, lodatissimo da Samaja, è un serbo di nome Vucetic? Il quale sceglie «a suoi coadiuvatori due bravissimi giovinotti il cap. Gebauer e l'alfiere Racich, l'uno delle Bocche di Cattaro, l'altro di Ragusa»? E che sull'imbarcazione vengono inalberate contemporaneamente tre bandiere: il tricolore italiano, la bandiera bianca dei diplomatici e la neonata bandiera jugoslava che, sottolinea Tomasich con orgoglio, sventola «per la prima volta sull'Adriatico»? E che i delegati, oltre a Samaja che naturalmente chiede l'intervento diretto dell'Italia sono il socialista - puecheriano - Alfredo Callini, che chiede l'intervento dell'Italia ma «quale mandataria dell'Intesa» e un altro sloveno triestino, Josip Ferfolja, che chiede l'intervento dell'Italia solo su mandato scritto delle forze dell'Intesa? Sfumature? Mica tanto. Sarà presto un secolo che gli storici, soprattutto sloveni, ci si azzuffano.
Ma al di là delle interpretazioni, per cui naturalmente qui non c'è spazio, l'epopea della piccola torpediniera nell'alto Adriatico pieno di mine, così come la racconta Samaja, è assai più mossa e assai più "triestina" di quello che in genere viene raccontato. Ed è affascinante perché - episodio celebre e controverso - lo si può rivivere da diverse angolature, nei tanti resoconti dei testimoni, come una scena di un film ripresa da diverse telecamere. Possiamo partire sulla torpediniera con Samaja e compagni, in mezzo alle loro reciproche diffidenze, in un gioco di sguardi che pare il duello del buono, del brutto e del cattivo (ognuno si faccia il casting da sé).
Ma poi ci possiamo spostare a Venezia, anticiparli e assistere - per esempio nelle parole di Rino Alessi - al loro sbarco, bendati (secondo protocollo, per ragioni di sicurezza, in quanto delegazione di un paese ancora nemico), con l'aspetto di chi da molti giorni non dorme nel suo letto. E poi ancora cambiare testimonianza, assistendo ai loro colloqui con l'ammiraglio Marzolo e, infine, con un balzo, tornare a Trieste ad aspettarli, vederli apparire all'orizzonte nelle parole di Silvio Benco e dei tanti che si assiepano sulle rive e che, di lì a poco, si strapperanno l'un l'altro la parola di bocca, ansiosi di testimoniare.
«Echeggianti da lontano - scrive Svevo nella novella “Una burla riuscita” che è ambientata appunto in quei giorni, prendendo in giro il suo personaggio Mario Samigli - anche le parole che disse Mario potrebbero ora essere tacciate di retorica. Ma bisogna ricordare che quel giorno era dovere della parola, specie in bocca di chi per destino non aveva agito, di essere anch'essa forte ed eroica».
Non esenti da quel rischio, le parole di Samaja - che viceversa ha agito convintamente ed efficacemente a favore della sua parte - non fanno della retorica uno schermo tale da cancellare i fatti. E di questo anche noi, come Svevo, possiamo essergli grati.
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