Il naufragio dell’Imperatrix e le prime vittime del Lloyd davanti all’isola di Creta

Nel febbraio del 1907 Silvio Benco scrisse un reportage su “Il Piccolo” in cui ricostruiva l’incidente costato la vita a 39 uomini dell’equipaggio imbarcati sul cargo  
L'Imperatrix all’imbarco
L'Imperatrix all’imbarco

“Sugli scogli di Creta si è spezzata una tradizione. Per la prima volta nella sua storia il Lloyd deve deplorare il sacrificio di vite umane nel naufragio di un suo piroscafo”.

Con queste parole sull’edizione de il Piccolo del 21 febbraio 1907 venne commentato l’affondamento dell’Imperatrix, sorpreso due giorni prima da una violenta tempesta al largo di Capo Elafonissi, sull’isola di Creta.

Nonostante i soccorsi prestati dagli ufficiali, da alcuni abitanti dell’isola e dall’intervento di navi russe, francesi e italiane, 39 uomini dell’equipaggio persero la vita, annegando tra le onde. I passeggeri, al contrario dopo due giorni di attesa vennero raggiunti e messi in salvo.

Alcuni passeggeri su una nave del Lloyd Austriaco
Alcuni passeggeri su una nave del Lloyd Austriaco


Il naufragio creò una enorme impressione a Trieste; il “Piccolo” dedicò a questa tragedia numerosi articoli tra cui spicca il reportage firmato da Silvio Benco, allora cronista di punta del quotidiano. Benco si imbarcò precipitosamente sul piroscafo “Achille” e raggiunse a Durazzo i naufraghi ricuperati da un altro piroscafo del Lloyd, il “Castore” e li intervistò prima che entrasse in scena la commissione d’inchiesta.

Il reportage occupò una pagina e mezza del quotidiano allora composto su sei colonne stampate con caratteri minuti, oggi improponibili ai lettori. Ecco cosa scrisse Silvio Benco “di prima mano”, senza mediazioni. La pagina ha per titolo “La tragedia dell’Imperatrix”.

Alle 4.10 precise si sentì un forte urto, come se la nave facesse attrito con tutta la sua carena sopra un fondo di roccia. Il capitano in seconda Enrico Ferencich ebbe subito l’intuizione di una disgrazia ma certo della sua buona rotta, al primo momento pensò che si fossero spezzate una o due pale dell’elica.

Si accorse però subito che il sinistro era ben più grave e immediatamente dette l’ordine di dare indietro e tutta forza di macchina; e la maniglia si mantenne in quella posizione finché si vide inutile ogni sforzo.

L’Imperatrix lanciata contro gli scogli con tutta la sua velocità di 13 miglia all’ora, vi si era incagliata e non retrocedeva più. Il secondo capitano Picciola, discese subito a svegliare il comandante, capitano Ghezzo, che fatta dopo mezzanotte l’ultima ispezione della sua nave, si era ritirato nella propria cabina: e in un minuto, egli e gli altri ufficiali, furono sul ponte. E qui incomincia la scena di terrore.

Il capitano Picciola, appena accortosi delle gravi condizioni del piroscafo aveva disposto che si preparassero le imbarcazioni e si accendessero i riflettori. Ma non c’era più luce per l‘Imperatrix. L’acqua aveva invaso le generatrici elettriche; una oscurità lugubre copriva la rapidissima avanzata dei flussi; il comandante Ghezzo, giunto sul ponte, piena l’anima di angoscia e la voce di comandi, non poté se non riconoscere l’investimento e dar ordine di armare le pompe e di scandagliare intanto per quanto possibile la profondità dell’acqua nella sentina e fuori bordo, tutti intorno al battello. Si voleva accertare se esso posasse sicuramente sul suo letto scoglioso.

Il carpentiere Marescutti - scrisse sempre Silvio Benco nella sua cronaca - racconta infatti di aver scandagliato la sentina; di aver trovato 19 pollici d’acqua; gli parve far bene dicendo a una donna che affannosamente gli chiedeva se vi fosse pericolo: No, non ancora. Quanta acqua c’è? Quindici pollici. (Diminuì la cifra per pietà). E annuì pure al comandante, quindici pollici d’acqua, che già erano tanti da non lasciare speranza. E a poppa? Avrebbe chiesto il capitano. Non vede che la poppa è tutta sott’acqua.

Meno di cinque minuti erano bastati a metter l’acqua alla gola, essa allagava tutto, entrava in tutte le parti, schiantava tramezzi e rigurgitava dalle boccaporte; si levava un affanno di grida, di gemiti, la spaventosa musica della paura di morire, il groviglio impazzito del panico. Tutto ciò nel buio più fitto e terribile, rotto solo dai razzi di salvataggio che il secondo ufficiale, capitano Picciola, lanciava. E tutto ciò soffocato dalla violenza dei colpi di mare che spazzavano la nave, radevano la coperta e strappavano via le cose.

In un tale disordine i comandi degli ufficiali non erano forse uditi; certo non erano assolutamente ascoltati. Invano si era detto di preparare le imbarcazioni- racconta il capitano Picciola - cioè di tenerle pronte per il momento disperato in cui sarebbero state la salvezza di tutti.

L’ordine fu capito alla rovescia. Una parte dell’equipaggio si gettò in grappolo disordinato sopra le imbarcazioni di destra e le stava con sciagurato pensiero ammainando: furono letteralmente prese d’assalto dalla ciurma in massa, fra le quali i meno pratici delle cose di mare si vedevano capeggiare in un’azione tumultuosa; le rizze che le tenevano su furono tagliate; le barche piombarono in mare dall’alto piene di gente; altre andarono a frantumarsi subito contro i fianchi della nave.

Il “life boat” che si trovava sottovento, come altre imbarcazioni, era anch’esso pieno di gente: furono richiamati a bordo a grandi grida e ritornarono, eccettuati due indiani che ad ogni costo vollero andare a sfracellarsi contro le rocce. Dopo pochi minuti, due sole imbarcazioni rimanevano ormai all’Imperatrix, ultima speranza ai naufraghi di poter abbandonare la nave. Recavano ancora la loro camicia di tela; era stato dato appena l’ordine di prepararle quando gli uomini presero anche queste d’assalto e le calarono in mare: avanti, via, a forza di remi. —


 

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