Il dattilografo di Villa Necker racconta nei suoi diari Trieste dopo l’8 settembre

Esce con Luglio editore il volume di Antonio Tommasi che raccoglie gli scritti lasciati dal suocero

come testimonianza per la famiglia: la caduta di Mussolini, le bombe, l’occupazione tedesca

Paolo Marcolin

TRIESTE I giorni concitati e drammatici della guerra, la caduta del fascismo e il successivo armistizio, quindi l’occupazione di Trieste da parte dei tedeschi, tutti avvenimenti vissuti in prima persona con la divisa dell’esercito addosso. A lasciare questa testimonianza, racchiusa all’interno di un diario ritrovato in un archivio privato, è un giovane triestino, militare di leva, che si trovava a villa Necker, sede del comando del XXIII corpo d’armata, con la funzione di dattilografo. Un ruolo minore, che però gli aveva permesso di partecipare ai momenti successivi all’annuncio dell’armistizio dell’otto settembre 1943, quando i comandi militari, lasciati senza ordini, si erano a poco a poco squagliati e a lui toccò battere a macchina per tutta la notte i salvacondotti per molti civili, tra i quali c’era anche la moglie del comandante la piazza di Trieste, Ferrero, che stavano per lasciare la città in tutta fretta. Il diario è stato trascritto sotto forma di romanzo breve dal titolo ‘Il dattilografo di Villa Necker’ (Luglio editore, pagg. 101, 12 euro, arricchito da foto concesse dall’Istituto regionale per la Storia della Resistenza) da Antonio Tommasi, un archivista che si interessa di ricerche storiche.

Tommasi, il dattilografo non ha un nome. Come mai? Si sa chi era?

«Era mio suocero, ma abbiamo preferito che il suo nome non venisse fuori perché questo diario lo aveva scritto solo per la famiglia, per far conoscere ai figli e ai nipoti quello che era successo non solo a lui, ma anche ad altri componenti della famiglia. Voleva tenere viva la memoria, convinto com’era che una cosa dimenticata era come se non fosse mai esistita».

Il diario risale a quei giorni di guerra?

«No, tutto quello che ha scritto, una ventina di quaderni in tutto, è frutto di un lavoro iniziato quando aveva passato gli ottant’anni. Lui, che era nato nel 1916 ed è morto nel 2012 quasi centenario, negli ultimi anni aveva anche fatto delle ricerche per costruire l’albero genealogico, risalendo molto indietro nel tempo, andando a fare ricerche fino a Venezia da dove la famiglia dei bisnonni si era mossa per andare in Istria. Dalla mole di carte che ha lasciato si ricavano tante notizie sul modo di vivere dei triestini, sulla scuola ai suoi tempi, sui suoi maestri».

Come ha scelto la parte da adattare a una versione romanzata?

«Il diario è molto circostanziato e, per quanto scritto a molti anni di distanza dagli avvenimenti vissuti, è ricco di particolari e di nomi di persone. A mio avviso l’aspetto più interessante è che il racconto delle vicende hanno interessato Trieste dal 1942 al 1946 vengono riportate con gli occhi di una persona comune. La caduta di Mussolini, l’otto settembre, lo sbandamento dei militari lasciati senza ordini sono avvenimenti che si mescolano all’incertezza del giovane dattilografo che ha lasciato la divisa senza sapere cosa succederà con l’occupazione della città da parte dei tedeschi. Poi c’è il periodo dei bombardamenti vissuti nei rifugi, i pericoli costanti, la dura vita quotidiana, tutto riportato in prima persona».

Nel libro il dattilografo non dà mai giudizi politici né sui comandi militari italiani che abbandonano i soldati, né sugli occupatori tedeschi.

«Non era fascista, ma aveva rispetto per l’autorità, qualunque essa fosse. Inoltre per la sua generazione, vissuta nel mito della prima guerra mondiale e nel clima di esaltazione patriottica, il crollo del regime equivale a un salto nel buio. Si comprende il suo stato d’animo, smarrito e incerto, quando, il 25 luglio 1943, alla caduta del fascismo, assiste all’abbattimento di un fascio littorio che si trovava sulla casa del marinaio in via Montfort».

Anche in occasione dell’8 settembre non ci sono giudizi contro i comandi italiani che lasciano i soldati senza ordini.

«Giudizi non ne dà mai, ma si intuisce il suo disappunto perché vengono lasciati privi di disposizioni. Racconta che lui e gli altri commilitoni di truppa vengono riuniti davanti a un ufficiale che dice loro di non rispondere qualora dovessero ricevere minacce armate. Ma chi avrebbe dovuto attaccarli? I tedeschi, i partigiani? Nessuno lo dice. Anche quando si tratta di abbandonare la caserma, in assenza ordini, lasciato in balia di se stesso, è disorientato».

Cosa succede di lui dopo?

«Deve trovarsi un lavoro per evitare di essere avviato al lavoro coatto o arrestato. Non sapendo che fare molti ex militari vanno fuori dalla caserma di Roiano che è stata occupata dai tedeschi e guardano da fuori, indecisi se presentarsi per l’arruolamento oppure nascondersi. Lui ha la fortuna di trovare un impiego alle ferrovie, dove trascorre il resto del periodo di guerra. Poi troverà lavoro all’istituto comunale per l’assistenza (l’attuale Itis, ndr) come ragioniere e vi rimarrà fino alla pensione».

Nel libro si accenna anche a un'altra vicenda di guerra che riguarda il padre del dattilografo.

«Era un marittimo del Lloyd che all’entrata in guerra dell’Italia si trovava in Sudafrica, dove era stato fatto prigioniero dagli inglesi. In Sudafrica c’erano diversi campi di prigionia per i soldati italiani e in uno di questi è rimasto rinchiuso fino al 1946, quando è finalmente potuto tornare a Trieste».

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