Il coraggio è la virtù di essere se stessi accettando l’altro

Terzo appuntamento per la serie dedicata a "Le 4 virtù cardinali". Domenica 15 aprile alle 11 al Teatro Verdi Michela Marzano  parla della “Fortezza” e delle nostre nuove paure

Terzo appuntamento domani con le Lezioni di Filosofia, nuova serie di quattro conferenze dedicate a “Le 4 virtù cardinali”. Alle 11, al Teatro Verdi (e non nella Sala del Ridotto), a ingresso libero fino ad esaurimento dei posti, introdotta da Pietro Spirito, Michela Marzano parlerà sulla “Fortezza”. Il ciclo delle Lezioni di Filosofia, ideato dagli Editori Laterza, è organizzato dal Comune di Trieste, assessorato alla Cultura, con il contributo della Fondazione CRTrieste e la media partnership de “Il Piccolo”. Anticipiamo di seguito un brano dell’intervento di Michela Marzano.


di MICHELA MARZANO

“Vien dietro a me, e lascia dir le genti: / sta’ come torre ferma, che non crolla / già mai la cima, per soffiar di venti”. Sono queste le parole con cui Dante, in un celebre passo della Divina Commedia, nel Canto V del Purgatorio, affronta il tema della fortezza, del coraggio. E in particolare questi versi danteschi – “Sta’ come torre ferma, che non crolla / già mai la cima per soffiar di venti” – mi ha accompagnata per anni. A lungo ho pensato che il coraggio fosse sinonimo di forza, di resistenza, di solidità, di vigore. Ho creduto che la caparbietà, la volontà di non cedere agli ostacoli, la capacità di sopportare le avversità consistessero nel restare immobili e saldi nelle proprie convinzioni, nei propri rapporti, nei propri desideri. E così tante volte mi sono ripetuta che avrei dovuto stare “come torre ferma che non crolla”. Finché alla fine ho imparato che talvolta il coraggio si esprime proprio nel lasciarsi piegare dal vento, per non crollare e rimanere fedeli a sé stessi.

Non è facile definire il coraggio. Nel senso tradizionale del termine, è la capacità di superare la paura e affrontare i pericoli, mentre nel senso più moderno e contemporaneo è piuttosto la capacità di restare sempre degni di fronte alle avversità della vita. Ma il coraggio è una caratteristica innata in alcuni e assente in altri oppure una virtù che si può apprendere? E ancora: ci vuole più coraggio ad agire oppure a fermarsi? A parlare o a tacere? A sopportare o a fuggir via, chiudendo i conti con un’intera fase della propria esistenza? Nel rispondere a queste domande, cominciamo dal rapporto fondamentale tra coraggio e paura.

A scene from the Trojan War, when heroes battled with heroes : Aeneas tries to defend the walls of Troy against the Greeks - but it's a losing battle Date: BC
A scene from the Trojan War, when heroes battled with heroes : Aeneas tries to defend the walls of Troy against the Greeks - but it's a losing battle Date: BC


Oggi è diffusissima la sensazione di vivere un’epoca in cui il coraggio si sta sbriciolando sotto i colpi della paura. E ormai, quando si domanda che cosa sia il coraggio, spesso chi risponde lo scambia per incoscienza. Ma le cose non stanno proprio così. Qualche mese fa le cronache hanno riportato un episodio grave e triste, accaduto nella metropolitana di Roma: un clochard era stato picchiato selvaggiamente senza che nessuno, ma proprio nessuno, intervenisse. Lo scandalo del mancato intervento può essere spiegato con la scomparsa del coraggio dalle nostre città? Non è forse vero che il coraggio è sempre stato, di fatto, una merce rara? E poi: i passanti non sono intervenuti per paura, come vuole la vulgata, oppure perché ormai viviamo tutti rinchiusi in un’armatura di indifferenza, sempre più privi di compassione e incapaci di immedesimarci nell’altro che soffre?

Voglio fare altri due esempi, che mi hanno visto direttamente coinvolta. Nella metropolitana di Milano, negli anni Novanta, ho assistito a una scena molto simile a quella appena ricordata. Ero abbastanza giovane e mentre spontaneamente stavo intervenendo per fermare il pestaggio, il mio compagno dell’epoca mi tirava indietro, mi intimava di non intromettermi, perché chissà che cosa ci sarebbe potuto accadere. E io, sconvolta: «Ma scusa, tu saresti dovuto intervenire! Come si fa a non muovere un dito di fronte a una situazione del genere? ». Qualche anno dopo, a Parigi, la scena si ripete: sto tornando a casa insieme a un amico quando un gruppo di ragazzini comincia a sfasciare una macchina. È stato più forte di me, mi sono fermata, sono intervenuta e anche stavolta sono stata ripresa: «Ma perché ti impicci? Lascia correre! Non ti accorgi delle conseguenze che puoi scatenare con questo modo di fare? ».



Allora mi chiedo: intervenire come ho fatto, spontaneamente, è una forma di coraggio? Io credo di no. Io avevo agito d’istinto, senza pensarci, sia nel caso della ragazza picchiata in metropolitana sia nel caso degli atti di vandalismo a Parigi. Era stata una reazione automatica di fronte a un’ingiustizia. Qualcosa non va e si interviene: è senso civico. Non è questo il coraggio. Il coraggio è la capacità di tener testa alla paura, nella perfetta consapevolezza dei rischi nei quali si incorre. Scrive ancora Dante, stavolta in un breve passaggio del Libro IV del Convivio: “Arme e freno a moderare l’audacia e la timiditate nostra, ne le cose che sono corruzione de la nostra vita” (cap. XVII). In maniera molto poetica, Dante ci sta dicendo ciò che, in filosofia, era stato già affermato da San Tommaso in termini di Fortitudo e, prima ancora, da Aristotele.

D’altronde, che si parli di temperanza, di giustizia o, come nel nostro caso, di coraggio, non si può che tornare ad Aristotele, il quale nell’Etica Nicomachea (III, 5-7) definisce ogni virtù come il giusto mezzo tra due estremi viziosi. Così, per Aristotele, il coraggio sarebbe un giusto mezzo tra codardia e temerarietà: «Abbiamo parlato a grandi linee di ciò che riguarda le Virtù in generale – scrive Aristotele – e del loro genere, dicendo che esse sono medietà e che sono stati abituali, che di per sé sono produttrici di quelle stesse azioni da cui derivano, che dipendono da noi e sono volontarie e che sono così come prescrive la retta ragione. Riprendendo la questione diciamo di ogni singola virtù, quale essa sia, su cosa verta e in che modo. E cominciamo dal coraggio. Che sia una medietà relativa a paura e ardimento è già venuto chiaramente in luce ed è chiaro che noi abbiamo paura delle cose spaventevoli che sono, per dirla breve, dei mali. Per questo la paura viene definita come aspettazione di un male. Ora noi abbiamo paura di tutti i mali, come infamia, povertà, malattia, solitudine, morte, ma non pare che il coraggioso sia tale in relazione a tutte queste cose. Alcune infatti, come l’infamia, debbono essere temute ed è bello farlo, mentre è turpe non farlo. Chi le teme è persona dabbene e piena di pudore, chi non le teme è un impudente».

«Alcuni però – prosegue Aristotele – chiamano coraggioso, per traslato, un tipo simile. Infatti ha una certa somiglianza con il coraggioso, dato che anche il coraggioso è uno che non ha paura in un determinato senso. Di certo non si devono temere la povertà e la malattia e, in generale, non si devono temere le cose che non derivano da un vizio e che non dipendono da noi. Tuttavia, nemmeno colui che non prova paura per queste cose è davvero un coraggioso...» (. . .) .

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