Gli esuli in Italia si impegnavano nel lavoro e il Giornale di Trieste raccoglieva donazioni

Negli anni dell’immediato dopoguerra non erano solo i temi politici legati ai profughi a tenere banco ma anche la vita di ogni giorno

Luca G. Manenti

TRIESTE Nel trattare il tema degli esuli, il “Giornale di Trieste” non tralasciò di dare informazioni che apparentemente poco avevano a che fare con la politica, ma i cui sottintesi politici non potevano sfuggire. La riesumazione dai nascondigli di guerra di alcune tele del Carpaccio, ricollocate sulle pareti dell'oratorio della scuola di San Giorgio degli Schiavoni a Venezia, diede il destro a Gino Damerini per sottolineare, il 19 settembre 1950, la presenza di profughi fra i visitatori. I convenuti poterono osservare le raffigurazioni dei santi protettori delle loro terre d'origine, compreso, e la citazione non era casuale, il “vescovo di Spalato, esule in Betlemme, fino alla morte”.

Il ciclo pittorico, dove “misticismo cristiano, nostalgia dell'oriente e vibrazioni del Cinquecento veneziano” s'intrecciavano felicemente, aveva superato incolume il conflitto grazie all'attività di custodia della corporazione dei “dalmati trasferitisi nella Dominante per i bisogni dei loro traffici con la Repubblica”. Veniva così costruito un ponte fra passato e presente, fra italiani di ieri e di oggi.

Ponte riproposto il 5 novembre, stavolta nella versione di un dialogo ideale fra “i morti e i vivi”, in un articolo dedicato a una cerimonia commemorativa svoltasi a Redipuglia. La messa fu accompagnata da “un nostalgico coro di esuli istriani”, quindi il senatore Rossini ricordò il sacrificio dell'Istria e della Dalmazia, raccogliendo il “fremente applauso” della moltitudine lì raccolta. Tali manifestazioni, ascrivibili alla ritualità laica della patria, erano contesti idonei a rammentare in modo solenne la condizione di pena vissuta dai profughi.

Ma il “Giornale di Trieste” non si limitava ad appoggiare l'esulato sul piano morale, fungendo da collettore delle beneficenze che i privati destinavano a enti, istituzioni, gruppi di bisognosi in cui erano inclusi gli istriani riparati in Italia.

Il consuntivo del 1950, pubblicato il 19 gennaio dell'anno seguente, registrò un totale di 19 milioni in donazioni. Di fianco alla voce “esuli istriani” era annotata la cifra di 945.212 lire, ossia il quinto contributo in ordine di grandezza sui 180 circa elargiti: dopo il Villaggio del fanciullo, degli Istituti per ciechi e per poveri, dell'Ospedale Burlo Garofolo, ma prima della Croce rossa, della Lega nazionale, dell'Ospedale maggiore e di numerosi orfanotrofi, opere assistenziali, casse di previdenza e comunità religiose. La cittadinanza, o almeno la porzione di cittadinanza che nutriva propositi filantropici e che godeva di un agio sufficiente per metterli in pratica, non guardava con indifferenza alla sorte degli esuli.

Esuli che, in Italia, stavano rialzandosi in piedi, impegnandosi nel lavoro e spesso eccellendovi grazie all'aiuto di sindaci e amministrazioni comunali. “Istriani e dalmati a Milano attivissimi come in casa loro”, recitava il titolo di un pezzo del 20 febbraio 1951, che con l'espressione “città nella città” si riferiva a una sorta di municipio composto da istriani e dalmati insediatosi nelle arterie della metropoli lombarda. “Abbiamo i nostri Caffè, i nostri Bar, che si sono fatti punti d'incontro obbligatori”, spiegava un intervistato, che continuava: “Non potete forse neppure immaginare quanti siano oggi gli esercizi fondati e gestiti dai nostri conterranei”. Il riuscito inserimento degli esuli nel tessuto lavorativo italiano nulla doveva a una carità elargita dall'alto, essendo il risultato dell'abnegazione dei profughi e delle autorità preposte a sollevarne le condizioni.

Il gioco fra legittime richieste e concreta facoltà d'accordarle era però delicato, tanto che l'autore dell'articolo prima accennò all'ipotesi che i profughi residenti nella penisola potessero trasformarsi in una “turba di malcontenti”, poi rasserenò i lettori: gli esuli “stanno per divenire cittadini reali d'Italia e uomini reintegrati anche nella loro vita domestica, nel piccolo ma indispensabile dominio della famiglia, nella fierezza e nella gioia insostituibili del focolare”.

L'orgoglio e il senso di dignità contenuti in queste frasi si ritrovavano nelle righe firmate il 16 aprile da Manlio Granbassi. A occasionare l'articolo era stato il trasferimento del Convitto Fabio Filzi, sorto a Pisino fra le due guerre, da Grado, dove aveva riaperto nel 1948 su iniziativa dell'Opera per l'assistenza ai profughi giuliano dalmati, a Gorizia. Alla cerimonia d'inaugurazione accorsero “Migliaia di profughi giunti da tutta Italia”, descritti come una comunità fortemente coesa, che neppure le distinzioni sociali incrinavano: “L'Istria si è ritrovata ieri a Gorizia, giovani e vecchi, donne e bambini nati in esilio, il fabbro e il professore, assieme, come assieme giocavano un tempo alle bocce in quei pomeriggi tranquilli del nostro bel mondo perduto”.

I calcoli economici del giornale riguardanti ciò che era stato compiuto per aiutare i profughi divennero più frequenti col passare del tempo. Un resoconto del genere, apparso il 28 settembre, delineò una panoramica sugli organismi adibiti allo scopo sorti, sostituiti o smantellati fino all'autunno 1951. L'incipit puntava immediatamente il dito contro l'insostenibile stato di cose: “L'imposizione del Diktat e il conseguente trasferimento alla Jugoslavia di terre geograficamente ed etnicamente italiane, crearono per il nuovo Governo un problema che, di giorno in giorno, si andava rivelando sempre più grave e difficile da risolvere”.

L'emorragia di italiani dalle terre giuliane era persistente, come non mancava di ribadire “Le ultime notizie”, foglio serale collegato al “Giornale di Trieste”, che il 7 aprile 1952 titolò in prima pagina: “Gli insegnanti italiani fuggono dalla Zona B”. La prosa era sobria, priva di fronzoli, ma i toni volutamente apocalittici, in modo da rimarcare la separazione fra due mondi inconciliabili: “Gli insegnanti sono fuggiti a Trieste per sottrarsi alle persecuzioni titine”; “Molti di costoro hanno subito la scorsa settimana gravi persecuzioni, le loro abitazioni sono state prese di mira da gruppi di squadristi titini”: dove si vede che, affibbiando a dei comunisti l'epiteto di “squadristi”, si creava un cortocircuito ideologico. Il messaggio era inequivocabile: al di là delle etichette politiche, nelle terre giuliane si stava consumando uno scontro violentissimo, elementare e allo stato brado, fra aguzzini slavi e vittime italiane.

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