Giorgio Benvenuto: «Non dobbiamo mai dimenticare l’esodo»
Oggi al Salone del libro dell’Adriatico orientale ospite il sindacalista già senatore e due volte deputato. «Nel ’47 perdetti tutto, il Giorno del Ricordo è occasione di rapporti costruttivi»
TRIESTE «Nei racconti è necessario non occultare o diluire gli errori, e non continuare a ripetere ai giovani "quanto siamo stati bravi"», ama sottolineare Giorgio Benvenuto, sindacalista e politico italiano, già senatore e due volte deputato della Repubblica Italiana, nonché segretario generale della Uil dal 1976 al 1992. Oggi, a 83 anni, non smette di intrattenere un dialogo trasparente con le nuove generazioni, che incontra spesso nelle scuole. Questa mattina, alle 11.30 sarà ospite a Trieste, in Piazza Sant'Antonio Nuovo, all'incontro "Dalle memorie alla storia", nell'ambito de la Bancarella 2021, il salone del libro dell'Adriatico orientale.
La famiglia Benvenuto perse la propria casa in Istria, ai tempi dell'annessione alla Jugoslavia. È una parte della sua vita che le capita di raccontare?
«Sì, mi capita. Vede, mio padre, di origine campana, era un ufficiale della Marina e si era sposato da poco con mia madre, di origine abruzzese, quando nel 1938 venne trasferito a Pola. Lì, assieme a mia sorella, nata nel '42, abbiamo abitato fino al '43. Ricordo con piacere Pola, vivevamo in case costruite per gli ufficiali. Mi ricordo del mare, della chiesa sopra la collina. Pola è una città che ho avuto modo di rivedere. Poi, nel '43 andammo a Chieti, dove vivevano i miei nonni e nel frattempo mio padre si ammalò di peritonite finendo in ospedale. In seguito fu costretto a darsi alla macchia, per sfuggire alle rappresaglie dei nazisti e, dopo la guerra, nel '47, quando optammo per l'Italia, perdemmo tutto quello che avevamo lasciato a Pola».
Cosa pensa della polemica sul Giorno del Ricordo riaffiorata quest'estate quando Tomaso Montanari, rettore dell'Università per stranieri di Siena, ha parlato di "decontestualizzazione delle foibe"?
«Io credo che, in generale, la giornata del Ricordo sia necessaria per non chiudere gli occhi su quello che è successo. Mi sono impegnato molto per due cose: prima perché venissero risolti i problemi di chi era nato in Jugoslavia dopo il Trattato di pace e poi, in Parlamento, mi sono battuto perché venisse istituita una giornata dedicata all'esodo, ma anche perché ci fossero francobolli con immagini dei paesi e dei musei dell'Istria. Noi non siamo dei giudici della storia, credo che il Giorno del Ricordo sia un'occasione per creare rapporti costruttivi».
Si fa abbastanza per tenere viva la memoria storica o si tratta di una battaglia ancora aperta?
«I giovani non amano la retorica. Bisogna trasmettere una storia che parla delle persone come erano, anche con gli errori che sono stati commessi. Dobbiamo tenerlo presente con i ragazzi che sono linfa vitale e rappresentano la storia di domani. Vado spesso nelle scuole a parlare con gli studenti e noto che l'attenzione c'è. Inoltre, hanno strumenti che noi non avevamo e che possono permettere loro di fare passi in avanti notevoli».
Lei è presidente della fondazione Bruno Buozzi, che si occupa di studi sul movimento sindacale e della diffusione della conoscenza storica del movimento operai. Proprio la figura di Buozzi, sindacalista e antifascista ucciso dai tedeschi nel '44, può trasmettere ancora molto.
«Buozzi è stato un politico importante: sapeva che in una democrazia bisogna trovare soluzioni nelle quali ci siano libertà ed eguaglianza. Ora, non voglio fare retorica, ma lui come altre persone di quel mondo che ha dato vita alla Repubblica, erano piene di passione e talvolta hanno avuto una vita terribile o, la vita, l'hanno anche persa. Queste persone non si davano mai per vinte, ritenevano che la sconfitta non significasse rinunciare alla battaglia e contiuavano nel loro obiettivo. Oggi, quello che le loro figure possono trasmetterci è l'importanza di non pensare alla propria carriera ma ai problemi della gente, che sia in un partito o in un sindacato. Ma possono regalarci anche la capacità non solo di chiedere ma soprattutto di dialogare e negoziare, per cercare soluzioni per combattere le disparità sociali. Per via della digitalizzazione che si trova nelle mani di pochi, il mondo si trova di fronte a una forte diseguaglianza tra chi sa e chi può sapere e gli altri, che invece fanno difficoltà ad accedere alle informazioni. La figura di Buozzi ci ricorda quanto sia importante chiedere solidarietà, impegnarsi, non avere paura e non ritenere mai persa la battaglia».
Rispetto a quando lei era segretario generale della Uil, in che modo è cambiato il ruolo del sindacato, essendo cambiata la società?
«Il nostro era un periodo difficile per fare il sindacato. Abbiamo passato la fase del terrorismo e una crisi quasi ventennale che ha riguardato l'economia, ovvero l'ubriacatura per la globalizzazione. Oggi il sindacato ha molti problemi. Però l'innovazione tecnologica è uno strumento formidabile come lo è la digitalizzazione. Il sindacato deve appropriarsi di nuovi compiti, ha un'occasione d'oro, proprio adesso che bisogna discutere di investimenti. Negli ultimi venti anni in cui ho fatto il sindacalista ho sempre dovuto trattare di tagli e sacrifici. Ora il sindacato ha una prateria, però deve rimettersi in discussione, coivolgere i giovani, prendere iniziative, pensare, progettare, negoziare. Non è sufficiente chiedere un incontro o una proroga, bisogna guardare ai problemi del futuro».
Ha affermato di recente che il sindacato è solidarietà, come lo sono i vaccini. I lavoratori vanno vaccinati?
«Pensi che una delle battaglie più belle che io ricordi è stata quella contro la poliomelite. Quando ero ragazzo rimanevo angosciato da quanti ne erano colpiti a scuola. Allora non c'era ancora il Ministero della Salute, ma un Commissariato della Sanità e il vaccino venne stabilito per tutti, grazie a un accordo stabilito con Giacomo Mancini. Credo che in Italia sia stato fatto un eccesso di discussione e mi dispiace riconoscere che per via dei ritardi ci siano stati tanti morti. Sulla salute dei lavoratori non ci possono essere dubbi: penso che il diritto del singolo non possa essere quello di contagiare una persona».
Riproduzione riservata © Il Piccolo