Emilio Comici, l’alpinista che insegnava «in montagna non si bara con se stessi»

Ottant’anni fa il grande arrampicatore precipitava nella palestra di roccia di Val Lunga. E diventava pietra miliare nella storia di questa disciplina 

TRIESTE Ottanta anni fa, il 19 ottobre 1940, Emilio Comici precipitava per una svista nella palestra di roccia di Val Lunga in prossimità di Selva di Val Gardena. Non aveva neanche quarant’anni. Eppure, nonostante la sua attività alpinistica si sia estesa per poco più di un decennio, rappresenta una pietra miliare nella storia dell’alpinismo. La sua è stata infatti la concezione più integrale, più piena di quello che allora si definiva come l’alpinismo del sesto grado, un alpinismo –va precisato– eminentemente dolomitico. Non è che altri allora non siano stati all’altezza delle sue prestazioni; basterebbe fare i nomi di Raffaele Carlesso, Gino Soldà, Gian Battista Vinatzer, Riccardo Cassin.

Ma ad aprire nuove frontiere per l’alpinismo è stato proprio lui, Emilio Comici. Lo stesso Cassin, il quale riuscì a superare la parete nord della Cima Ovest di Lavaredo già più volte tentata da Comici, proprio da questi fu per così dire introdotto alle nuove tecniche di salita nel corso di una visita in Grigna, in quella che era la sede storica di formazione per gli occidentalisti. Al riguardo spiace constatare che a Comici abbia dedicato scarsa attenzione Alessandro Gogna nella sua recente interpretazione della storia dell’alpinismo (Visione Verticale) e per inciso la stessa osservazione potrebbe valere per colui che è stato il più coerente continuatore di Comici cioè Enzo Cozzolino, più noto nell’ambiente come Grongo, sul quale tornerò più avanti.

Quali sono dunque gli elementi di fondo nella concezione dell’alpinismo sulla quale la riflessione di Comici si sviluppò nel corso della sua intera esperienza? Innanzitutto il pieno controllo della tecnica, che egli innova, volta al dominio di se stesso, unica possibilità di rimuovere la paura, sensazione che pure non stenta a riconoscere; il pieno equilibrio psicofisico, per cui il cervello non chiede al corpo ciò che questo non potrebbe dare e a sua volta il corpo avverte il cervello che oltre non si va. Sicurezza quindi come piena consapevolezza dei propri limiti. Non barare quando vai in montagna, non barare con te stesso, è un suo avvertimento esplicito.

E poi lo stile, l’eleganza sia nel procedere sia nel concepire la salita. A buon diritto il volume fotografico del 1957 curato da uno dei suoi ultimi compagni di cordata, Severino Casara, porta come titolo: “L’arte di arrampicare di Emilio Comici”. E infine l’impegno pedagogico, che si concretizza nell’apertura della scuola di arrampicata in Val Rosandra nel 1929, scuola che oggi si avvicina a compiere i 90 anni.

È anche da aggiungere che negli anni Trenta a Comici si dedicano molto i mass media presentandone un mirabolante ritratto: l’uomo mosca, il domatore della montagna. È una novità sulla quale il regime fascista proverà a giocare nell’ambito della competizione (che è l’altra faccia dell’alleanza) con quello nazista. A dire il vero, alle volte Comici incoraggia il regime in tal senso definendo qualche sua salita come espressione di prestigio nazionale, ma da qui a definirlo un fascista, come su queste pagine anche Messner ebbe a indulgere parecchi anni fa, ce ne corre.

La motivazione di fondo delle sue imprese è sempre stato qualcosa di individuale, riconducibile solo con una forzatura a una dimensione pubblica; è stato più un antieroe, incline più al disincanto che alla celebrazione o all’autocelebrazione, come chi l’ha conosciuto nel privato non ha mancato di porre in luce. Al riguardo non è stato dato titolo più sbagliato alla raccolta dei suoi scritti pubblicata postuma nel 1942, cioè “Alpinismo eroico”. Eroico in quanto, come ebbe a scrivere uno dei suoi compagni, Giordano Bruno Fabjan, avrebbe rappresentato “alla perfezione l’atleta di Mussolini: tenace, cavalleresco ardimentoso”. Nessun dubbio quindi che Comici sia stato fascistizzato.

Ma quanto più conta è altro. Con la concezione dell’alpinismo che si è detta Comici si è posto a maestro e guida per la sua generazione. Sono queste due parole che lo ricordano sulla stele che è stata eretta nel 1942 sulla sommità del crinale di Val Rosandra e che da allora è nota come cippo Comici.

Non solo: maestro e guida lo è stato per alcuni decenni per l’intero alpinismo triestino quanto meno fino agli anni Settanta. La sua concezione è stata profondamente interiorizzata da chi si avvicinava all’arrampicata e non solo a quella estrema: in particolare il non andare al di là delle proprie possibilità è un’ammonizione che è stata presa estremamente sul serio e ha rappresentato il fondamento della sicurezza in montagna. In altre parole la sicurezza viene dall’interno di te stesso non dagli strumenti che usi per arrampicare. Inoltre, per tutti quelli che dopo di lui si sono avvicinati all’alpinismo estremo, le sue vie sono state un banco di prova sul quale, per così dire hanno preso le misure delle proprie capacità.

Alcune vie poi sono state viste con un timore reverenziale che ha portato a lungo a escluderle dal novero delle possibilità (si pensi allo spigolo nord della Piccola o alla parete nordovest del Civetta). Mi si permetta un ricordo personale: lo Spigolo giallo sulla Piccola di Lavaredo è una delle prime vie sulle quali fui portato ad arrampicare nel 1967 e l’anno dopo la nord della Grande una delle prime sulle quali salii da capocordata.

Di Emilio Comici uno in particolare è stato il più coerente continuatore: Enzo Cozzolino con il suo ritorno all’arrampicata libera, con le sue straordinarie performance su Cima Scotoni, sul diedro del Mangart, nelle numerose salite in libera, strappatoci purtroppo a 24 anni nel 1972, una meteora ancora più fulminea.

Stiamo parlando di 50 anni fa. E dopo? Dopo, in particolare dagli anni Ottanta in avanti, questo mondo, questa concezione dell’alpinismo in gran parte è crollata. Da un lato l’alpinismo di elite ha cercato la difficoltà estrema ma nel singolo passaggio non più nella salita in montagna, è diventato per così dire sassismo.

Non nego che oggi si facciano in particolare nelle innumerevoli palestre di roccia, incomparabilmente più frequentate rispetto alle pareti di montagna, cose inimmaginabili cinquant’anni fa, ma nella massima sicurezza, con spit, friends, nuts e altre diavolerie (che fra l’altro si usano per incrementare la sicurezza anche dove una volta si passava senza).

Dall’altro lato l’alpinismo di massa con la sua profluvie di vie ferrate, percorsi attrezzati ecc. è diventato il teatro dell’esibizione appunto di massa.

Eppure, per concludere con un tono meno pessimistico di quanto uno potrebbe aspettarsi, forse qualcosa della lezione di Comici è ancora rimasto. Alcune settimane fa sono capitato per caso in Napoleonica e ho osservato una giovane donna salire lo scudo, una via alquanto strapiombante. Ebbene, sono stato colpito dalla leggereza e dall’eleganza dei suoi gesti. Forse nel Dna dell’attuale alpinismo triestino qualche traccia di Comici riusciamo ancora a individuarla. –


 

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