E sull’isola di Goli Otok si recitava il mea culpa perché finisse il terrore

Fino al 17 maggio al Politeama Rossetti lo spettacolo scritto e recitato da Renato Sarti e da Elio De Capitani
Il lager titino in una foto d'epoca
Il lager titino in una foto d'epoca

Era un giovane studente di medicina a Zagabria, quando nel giugno del ‘48 venne arrestato e internato nel gulag di Goli Otok, isola dell’arcipelago del Quarnaro. Dopo sei mesi in carcere, Aldo Juretich rimase due anni a Goli Otok, il «peggiore dei campi di internamento di Tito» in cui dal 1948 al 1956 finirono i cominformisti, ossia quei comunisti che scelsero di schierarsi con l’Unione Sovietica dopo la rottura fra Tito e Stalin.

Nato negli anni Venti a Fiume e morto il 5 novembre 2011 a Monza, dove abitava, Juretich ha lasciato la sua testimonianza all’attore e regista triestino Renato Sarti, che assieme a Elio De Capitani l’ha riversata nello spettacolo “Goli Otok. Isola della libertà”. Prodotto dal Teatro dell’Elfo con la collaborazione del Teatro della Cooperativa di Milano (fondato da Sarti), arriverà al Politeama Rossetti domani alle 20.30, e verrà replicato fino a domenica. Le musiche sono di Carlo Boccadoro.

Una veduta dell'Isola Calva (Goli Otok)
Una veduta dell'Isola Calva (Goli Otok)

Elio De Capitani incarna Aldo Juretich, incoraggiato da un medico di origine croata (Renato Sarti) a esternare il proprio vissuto. Gli animi come Juretich, osserva, hanno tutte le fragilità umane, ma ci trasmettono la sensazione che il sovrumano dolore si possa esprimere quando lo si è attraversato mantenendo fino al limite del possibile quell’integrità della persona che gli altri volevano distruggere. E vuol ricordare le parole di Eschilo dalle Coefore, tradotte da Pasolini. «“No, non vi dirò la pena. Siamo impotenti. Noi siamo impotenti a esprimere i sovraumani dolori”. In questa frase c’è la difficoltà a trasmettere la condizione di una persona che è stata nell’irrealtà di un mondo sadico di sofferenza con un risvolto medievale. Perché se la macchina della morte dei nazisti, che voleva compiere un genocidio, era una macchina di sterminio moderna attraverso lo Stato, una mostruosità atroce, unica, la macchina di Goli Otok era per il “revidirci”, un ravvedimento di tipo medievale. Cioè l’idea dell’auto da fé, del mea culpa, dell’abiura. Per di più con la perversione dell’autogestione del terrore, in cui erano i prigionieri stessi a gestire completamente il meccanismo infernale punitivo».

Goli Otok: sul palcoscenico l'orrore di Tito

Non lo racconta nel testo teatrale, Renato Sarti, eppure a Goli Otok lo portò proprio Aldo Juretich. «Mi è rimasto impresso tutto di quel piccolo viaggio - afferma -. Aldo era senza un polmone, aveva anche una certa età. Lui era in vacanza ad Arbe, come sempre negli ultimi anni, e io una volta sono andato a trovarlo. Da lì abbiamo raggiunto Goli Otok con la barca. Per un periodo un cartello in varie lingue accoglieva i turisti: “Benvenuti a Goli Otok, l’isola della completa libertà”. Perché avevano pensato di fare un campo nudisti. Immaginate che impatto può avere avuto per lui. Avrebbe dovuto essere un monumento nazionale, come la Risiera o le Fosse Ardeatine, un posto non contaminato dalla stupidità».

Sarti conobbe Juretich assieme al giornalista Andrea Berrini, con cui aveva scritto “Noi siamo la classe operaia: i duemila di Monfalcone”, un testo sui monfalconesi dei Cantieri che nel 1947 emigrarono nella Jugoslavia di Tito in cerca di lavoro. «Abbiamo trovato il suo indirizzo nel libro di Giacomo Scotti “Goli Otok. Italiani nel gulag di Tito”, e siamo andati una mattina da lui. È stata la prima volta che ha testimoniato davanti a un registratorino, tra l’altro scalcagnato, la prima volta che faceva una colata lavica di tutta la sua vita, di tutto quel che aveva passato».

Quel magma di parole, raccolte in molteplici incontri a cui era presente anche la moglie di Juretich, Ada (verrà alla prima del Rossetti), diventa una grande lezione di drammaturgia. «È straordinaria la capacità di Aldo di raccontare quella esperienza con la sua ironia, la lucidità poi di parlare di Abu Ghraib, di Guantanamo, del G8 a Genova, la sua abilità di citare i più grandi letterati, romanzieri, scrittori di teatro o librettisti, di sciorinare tutta una serie di verbi che non sono comuni, non sono usuali, non sono quotidiani. Il suo modo di parlare era estremamente elaborato, alto».

Aldo Juretich
Aldo Juretich

A teatro l’odissea di Juretich sarà un’emanazione di grande potenza poetica, da cui ognuno può imparare a riflettere su quanto gli è capitato. «Questo miracolo non si può descrivere - dice De Capitani -. La sostanza del teatro sta proprio nel mistero di questa incarnazione che è accaduta e che ogni sera fa sì che il generico del discorso politico su Goli Otok diventi uno specifico di una coscienza personale che ci parla direttamente, come la vita. Non è la Storia a parlare, è una persona che l’ha attraversata. Quello che stupisce è il fatto che siamo di fronte a una grande affabulazione di altissima poesia, perché Aldo era un poeta d’animo. Nei momenti più atroci che racconta, momenti in cui possiamo rimanere smarriti, è lui che ci accompagna, è lui che ci guida a rielaborarli subito con la sua esperienza».

Uno degli elementi cardine della storia di Aldo Juretich, che aveva sangue zingaro della tribù istro-romena dei Cici, è che viene arrestato a casa sua alle 11 di sera. «Lui supplicò gli agenti dell’Udba, la temutissima polizia segreta: “Fate quello che volete, però per favore fate piano perché mia mamma sta male”. Sua mamma non si accorge dell’arresto. Alle 4 del mattino l’inquirente, che Aldo conosceva molto bene, gli dice: “Aldo, tu mi dai due o tre nomi, collabori con noi e torni a casa. Vuoi costruire il socialismo?”. E Aldo, che a quei tempi era un zolfanello, un fiammifero, si accendeva subito politicamente, risponde: “Sì, il socialismo voglio costruirlo, ma come voglio io, non come volete voi”».

Ebbe la forza di non cedere, e questa sua spina dorsale viene sottolineata sia da Sarti che da De Capitani. «A me ha sconvolto l’integrità morale di Juretich, - rivela Sarti - che deriva da due codici: quello etico, umano, degli amici, dei fratelli, dei compagni che hanno lottato con te e che non puoi tradire, e il ragionamento politico che se cominci a percorrere la strada della delazione, entri in un meccanismo ricattatorio, in un vortice di spie, di collaborazioni da cui non esci fuori. Lui ha sofferto le pene più atroci inflittegli da quel sistema, però è rimasto convinto comunista, credeva nella giustizia, nella libertà, nella fratellanza dei popoli, nell’internazionalismo. Aveva un desiderio: “Che non succeda mai più quello che è successo a me, altrimenti tutta questa mia sofferenza non è servita a niente”».

Sarti confessa di riconoscere in Aldo Juretich un percorso suo, di sangiacomino. «Mi piacciono queste storie. Trieste dal mare è bellissima, con tutti i palazzi del borgo Teresiano che sembrano di marzapane, ma dietro c’è una storia orribile. Non è un problema di fascismo o di comunismo, di destra o sinistra, ma di humus. Tutti aspiriamo alla dolcezza e all’amorevole contatto, ma questa è la terra delle lacerazioni, della scontrosa grazia e del ragazzaccio aspro di Saba».

«Ci piacciono i capuzi garbi, el teran acidulo, - conclude, e il suo triestino non si ferma più - i asparagi e el radicio terzo tajo perché xe amari, la salsedine, la bora fastidiosa, gli incontri e gli incroci strani, inaspettati. Insoma semo selvadighi, e un poco imborezadi».

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