Dall’Antartide al Monte Canin la lunga storia dei ghiacciai che se ne vanno dal mondo
TRIESTE Tra i due laghi di Fusine un enorme masso consente a chi vi sale in vetta di ammirare contemporaneamente i due specchi d’acqua. È il più grande masso erratico - secondo i geologi - di tutto l’arco alpino ed è stato spostato in quel punto dalla massa del ghiacciaio che scendeva del Monte Mangart e che il cambiamento climatico ha dissolto, fondendolo nel corso dei millenni. Su quel ghiaccio oggi ridotto ai minimi termini a causa dell’innalzamento delle temperatura, decine di alpinisti si sono cimentati già alla fine dell’Ottocento con ramponi e picozze.
Fra essi Julius Kugy, Giacomo Savorgnan di Brazzà, Giovanni Marinelli e Attilio Pecile. Quel masso erratico di 30 mila metri cubi di volume e con una massa di 81 mila tonnellate, testimonia la forza dei ghiacciai che hanno modellato vaste aree del nostro pianeta. E ai ghiacciai e al loro ruolo nel disegnare la fisionomia dei territori, lo scrittore e alpinista Enrico Camanni ha dedicato un libro tanto atipico quanto affascinante stampato dall’editore Laterza.
Ha per titolo “Il grande libro del ghiaccio” e nelle sue 370 pagine l’autore sviscera gli innumerevoli aspetti di quello che lui definisce “Il mondo congelato”. Enrico Camanni racconta in trenta capitoli l’epopea dei pionieri dell’esplorazione polare, le vicissitudini dei soldati che vissero durante la Grande Guerra in gallerie e caverne scavate nei ghiacciai delle Alpi, l’enigma della neve, la gelida sfida del Titanic, l’altezzoso transatlantico che i progettisti avevano definito “inaffondabile” e che fu colato a picco da un iceberg, l’invasione dello sci di massa nelle valli alpine, l’assalto alle cime dell’Himalaya, la conquista dell’Antartide, l’entrata in scena della neve artificiale “inventata” dall’uomo per porre rimedio a uno dei tanti danni da lui provocati attraverso il cambiamento climatico legato all’uso dei combustibili fossili.
La ricerca dell’autore esce dagli usuali schemi letterari e nei capitoli che si susseguono con incalzante determinazione, il ghiaccio, la neve, la brina, la galaverna sono gli assoluti protagonisti di tutte le pagine. Gli uomini appaiono degli esseri fragili che hanno imparato in un primo tempo a temere la forza del ghiaccio; poi si sono adattati a viverci accanto, lottando per essere comunque spesso sconfitti dalla sua enorme forza. Infine questi uomini hanno di recente saputo sfruttarne la presenza, fino a compromettere il futuro dei ghiacciai non solo europei attraverso l’uso sconsiderato dei combustibili e delle plastiche. Devastando foreste, provocando incendi di inusitate dimensioni, roghi immensi come quello australiano in cui le fiamme hanno sacrificato milioni e milioni di animali e di alberi.
"I ghiacciai sono esseri viventi in quanto la loro materia si rinnova con un processo periodico. Il ghiacciaio è un essere organizzato con una testa che è il suo nevaio, con cui bruca la neve e ingoia i frammenti di roccia, testa ben divisa dal resto del corpo dalla crepacciata terminale; poi un enorme ventre in cui si compie la trasformazione della neve in ghiaccio, ventre inciso da profondi crepacci, solchi e canali; e nella sua parte inferiore rigetta, sotto forma di morena, i rifiuti del suo nutrimento”. Questo aveva scritto il filosofo e poeta francese René Daumal nel 1939 nel suo libro incompiuto “Il Monte Analogo” che Enrico Camanni apprezza e cita ampiamente nelle pagine del suo volume. “La vita del ghiacciaio è ritmata dalle stagioni. D’inverno dorme e in primavera si risveglia, con scoppi e scricchiolii”.
Durante uno di questi rumorosi “risvegli” è iniziato il viaggio verso la parte bassa della valle dell’enorme masso erratico su cui oggi tanti atleti si arrampicano a Fusine. Il ghiacciaio era in piena espansione. Ma la sua avanzata si è interrotta tra 15 e 10 mila anni fa, quanto l’ultima glaciazione si è conclusa ed è iniziata la ritirata oggi trasformatasi in precipitoso arretramento per i ghiacciai i tutto l’arco alpino. Questo arretramento ha coinvolto nella nostra regione il ghiacciaio del Monte Canin, l’unico presente nelle Alpi Giulie Occidentali. Ne ha scritto tra il Natale del 1916 e il Capodanno del 1918 il “cantore” delle Giulie Julius Kugy nel suo libro “Dalla vita di un alpinista”.
“Il Canin è l’unica montagna delle Alpi Giulie la cui ascensione conduca attraverso un ghiacciaio. Il crepaccio ai piedi del canalone alla fine dell’estate ha un’apertura impressionanate”. Kugy lo aveva salito anche in “invernale” con Graziadio Bolaffio nel 1902. Di questo piccolo ghiacciaio molti hanno scritto testimoniandone il progressivo ridimensionamento; nel 1957 Mauro Botteri nella guida edita dal Cai XXX Ottobre aveva ricordato che “al riparo di una cresta di meno di 2500 metri si estende il ghiacciaietto del Canin, molto modesto per estensione, ma molto caratteristico e importante per lo studioso”. Vent’anni più tardi due altri scrittori-alpinisti, Dario Marini e Mario Galli, erano ritornati sullo stesso tema in un’analoga guida firmata dalla Società alpina delle Giulie. “Sono notevoli, più per lo studioso che per l’alpinista, i piccoli ghiacciai posti ai piedi delle pareti Nord del Canin, molto ridotti nell’ultimo secolo in estensione e spessore, singolari per la bassa quota a cui si fondono le fronti: 2200 metri. I vecchi geografi li considerano un relitto degli antichi ghiacciai wurmiani che dalle cime scendevano e invadevano le vallate fino alla pianura friulana. Le tre vedrette non raggiungono assieme il mezzo chilometro quadrato di superficie, ma fino a non molto tempo fa dovevano avere una massa e un aspetto assai diverso. In particolare quella del Canin occidentale la vediamo rappresentata nelle vecchie fotografie con profondi e frequenti crepacci, descritti con precisione dal geografo ed esploratore friulano Giacomo Savorgnan di Brazzà”.
Alcune sue belle fotografie dei crepacci e dell’estensione del ghiacciaio del Canin sono oggi conservate nell’archivio della Società alpina friulana e in un “fondo” dei Civici musei di Udine. Finora nessuno ha potuto nemmeno ipotizzare una qualsiasi iniziativa per salvare dalla fusione e dalla definitiva scomparsa questi ultimi ghiacciai presenti sulle montagne friulane. Al contrario il ghiacciaio del Presena posto al confine fra Trentino e Lombardia viene coperto ogni estate da immensi teli che riflettono i raggi del sole allo scopo di preservarne la fisionomia e la vita, se non altro per consentire qualche settimana di sci nella trada primavera e a inizio estate. In Valtellina lo “scioglimento” del ghiacciaio dei Forni, il più vasto delle Alpi con tre lingue di alimentazione, ha invece innescato una manifestazione musicale organizzata a pochi metri di distanza dai seracchi. Il 20 luglio 2019 risuonarono dalla terrazza del rifugio “Branca” – 2493 metri di quota - le voci di violini, viole, corni, contrabbassi, fagotti che eseguivano il “Requiem” di Wolfang Amadeus Mozart e l’”Halleluja” di George Friederich Hendel. Un atto d’amore, in morte e in lode per il ghiacciaio agonizzante, come nel ciclo della vita. —
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