Dai roghi alle stragi sulla frontiera adriatica: così il Novecento ha distrutto i diritti umani
TRIESTE Nel corso del Novecento, che molti dicono breve ed altri fin troppo lungo, l’area ex jugoslava è stata caratterizzata da ripetute e gravissime ondate di violenze politiche di massa, tali da sfondare la soglia del genocidio. Lo stesso è avvenuto, se pur con intensità minore, nella fascia di transizione fra Balcani ed Italia, e cioè quella frontiera adriatica nella quale ancor oggi viviamo, fortunatamente più tranquilli. Collegare le due vicende e studiarle con approcci diversi, storici e giuridici, è lo scopo di un convegno che si terrà domani, ovviamente on line, organizzato dal Dipartimento di scienze politiche e sociali dell’Università di Trieste assieme all’Istituto regionale per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea nel Friuli Venezia Giulia.
La sessione giuridica avrà come fuoco il rapporto fra i diritti umani e la loro violazione nella ex Jugoslavia alla fine del secolo scorso: sono state infatti proprio quelle violazioni a far scattare una reazione internazionale sulla quale si è fondata l'istituzione del tribunale internazionale per la repressione dei crimini nella ex Jugoslavia. A più di tre anni ormai dalla cessazione delle sue funzioni, i partecipanti al convegno coglieranno l'occasione per indagare due aspetti: il primo, la possibilità di applicare le nuove norme sui crimini internazionali anche a crimini di origine più antica, quali il genocidio e il genocidio culturale; il secondo, gli effetti della creazione di un tribunale internazionale sulle giurisdizioni nazionali, cui normalmente è riservata l'esclusiva dell'azione penale, come elemento costitutivo della sovranità di uno Stato.
La sessione storica si propone un obiettivo ancor più ambizioso: esaminare in maniera globale le logiche della violenza sviluppatesi nel Novecento lungo la frontiera adriatica. Presi uno ad uno, i diversi episodi di violenza politica sono stati ben studiati ed in alcuni casi con un'attenzione ossessiva: basti pensare alle stragi delle foibe, che nel resto d'Italia sono state conosciute solo negli ultimi decenni, mentre a Trieste e Gorizia fanno parte quasi del discorso quotidiano, almeno per alcune generazioni di giuliani. Più raramente però i singoli segmenti di quel percorso di violenze sono stati messi in rapporto fra di loro ed anche quando ciò è avvenuto, il confronto è stato spesso parziale e per di più condotto volentieri su di un piano ideologico e polemico: un esempio per tutti, l'insensata contrapposizione tra risiera a foibe, che ha ammorbato decenni di dibattiti fra gli anni ’70 e la fine secolo.
Se invece si prova a gettare uno sguardo globale alle dinamiche della violenza, ecco che un profilo altimetrico si disegna con una certa chiarezza. Si parte da una bassa quota, con alcune episodiche asperità, in epoca asburgica. Seguono due picchi, in corrispondenza alle due guerre mondiali e ai loro strascichi nei dopoguerra. Possiamo chiamarli, rispettivamente, “la stagione delle fiamme” e “la stagione delle stragi”. La prima, comincia con i roghi delle sedi irredentiste a Trieste nel maggio 1915, prosegue con quelli del Narodni Dom e delle sedi socialiste nel dopoguerra, per concludersi simbolicamente con l'incendio dal cantiere San Marco nel 1921. La seconda ha origini più lontane, nella Jugoslavia occupata dalle truppe italiane, dove lo stragismo – vale a dire il ricorso alle eliminazioni di massa – si afferma rapidamente come una delle pratiche di lotta più usate da tutte le forze in campo. Assieme al diffondersi del movimento partigiano e quindi della repressione, lo stragismo arriva fin dal 1942 nella Venezia Giulia. Colpisce dapprima sloveni e croati, con eccidi come quelli di Podhum e di Ustje e successivamente gli italiani con le stragi delle foibe istriane. Poi arrivano i tedeschi e le stragi si moltiplicano con una frequenza impressionante, mentre viene allestita anche la “fabbrica della morte” della risiera di san Sabba. Lo stragismo continua alla grande nella fase di transizione fra guerra e dopoguerra con la nuova ondata di foibe, per incunearsi fin dentro il dopoguerra con la strage di Vergarolla del 1946.
Dietro l'evidente salto di qualità fra i due picchi sta la diversità fra l'esperienza della prima guerra mondiale, terribile ma nella quale la distinzione fra militari e civili viene in genere rispettata, e la seconda, dove invece i civili diventano obiettivo specifico delle azioni militari, sia che la morte piova dal cielo, sia che prenda la forma di uccisioni di massa. Fra un picco e l'altro si distendono due accidentati altipiani della violenza politica. Il primo è segnato dalla violenza di stato fascista italiana, il secondo dalla violenza di stato comunista jugoslava. Confrontarle ha senso, ovviamente non in chiave politica, ma come utile sistema per capirne meglio obiettivi, metodi e risultati.
È quel che si cercherà di fare domani pomeriggio, grazie al contributo di una nutrita pattuglia di studiosi che proporranno sguardi nuovi su alcuni problemi specifici, per riflettere poi assieme sulle interpretazioni generali di una storia tanto oscura quanto vicina. —
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