Da Trieste a Genova l’Italia si conferma una “Patria senza mare”

In un libro il giornalista Marco Valle analizza il rapporto ambivalente del nostro Paese

affacciato sul Mediterraneo. Una lunga storia di vicinanza e lontananza economica

Pietro Comelli

TRIESTE L’Italia ha un rapporto strano con il mare. Disinteressato alla sua storia, indifferente al lavoro e alle ricadute economiche che ne derivano, strabico nel comprendere le strategie geopolitiche che si giocano fra le onde di un mondo in tempesta. Trieste non sfugge a questo cliché, anzi ne è forse il prototipo plastico e disincantato. Il mare deve garantire le alici (i sardoni, purché siano barcolani doc pescati nel golfo) e uno spazio per la brandina da abbinare a doccia e posto auto al Bivio di Miramare. Gratis. Il porto e i suoi traffici, il percorso per la costruzione di una nave, la differenza fra le professioni di pilota del porto e ormeggiatore, il comparto della pesca, per non parlare della toponomastica sembrano cadere in secondo piano. Più che le navi nell’immaginario ci sono le barche, con la regata della Barcolana capace di far scoprire l’arte e i mestieri della vela a chi non la mastica. Insomma, prevale il contorno e non succede solo a Trieste dove il Nautico sforna capitani, macchinisti e lupi di mare. Eppure l’Italia è bagnata da tre mari lungo 7.551 chilometri di linea di costa. Una centralità, quella dell’economia marittima, testimoniata dai numeri: attraverso il Mediterraneo transita il 20% del traffico commerciale mondiale, il 25 dei servizi di linea container, il 30 del traffico petrolifero. E ancora il 54% del commercio estero italiano, l’85 del traffico con i Paesi extra Ue e più del 90 dell’energia (petrolio e gas scorrono sopra e sotto le onde) si muove via mare. Non solo, quasi il 50% del Pil italiano passa attraverso l’acqua salata anche per merito di una flotta mercantile undicesima al mondo, mentre sui fondali corrono le linee delle telecomunicazioni digitali con i flussi dati. Una filiera messa a dura prova dall’emergenza sanitaria, con un perdita di 10,7 miliardi nel 2020, eppure capace di riprendersi l’anno dopo a dimostrazione della vitalità di un comparto che offre occupazione a 900 mila addetti, oltre 5 milioni con l’indotto, su cui vigila la Marina militare.

Ce lo ricorda il giornalista e scrittore triestino Marco Valle nel suo ultimo libro “Patria senza mare” (Signs Books edizioni, 539 pag, 25 euro) che nel sottotitolo “perché il Mare nostrum non è più nostro” racchiude il percorso di una storia dell’Italia marittima che parte ben prima delle Repubbliche marinare per arrivare fino ai giorni nostri. Ne esce un’Italia dove spuntano le scorribande degli Uscocchi nell’Adriatico con Venezia che, esasperata da quei pirati protetti dagli Asburgo, s’infila nella guerra di Gradisca. Ovviamente lo status di porto franco di Trieste conferito da Carlo VI, anticipato nel 1717 dall’ordinanza che prevedeva l’armamento di flotte militari. E così tra ancore asburgiche e marinai d’Istria e Dalmazia, che a bordo parlavano l’istro-veneto, la rinascita dell’identità marittima tra Venezia, Trieste, Pola e Fiume passa fra l’aquila bicipite e il principe Metternich pronto ad affidarsi, anche per i collegamenti su rotaia, a figure quali Luigi Negrelli, Carlo Ghega e Carl Ludwig von Bruck, tutti presenti nello stradario di Trieste. Se il successo del Lloyd e la particolarità di Trieste e del suo porto non erano sfuggite a Karl Marx, la nascita del Regno d’Italia, il canale di Suez diventato realtà e lo scoppio della Grande Guerra aprivano nuovi scenari, egemonie e aspirazioni per il Mare nostrum con nomi quali Costanzo Ciano, Luigi Rizzo, Nazario Sauro, Gabriele D’Annunzio... L’autore di “Patria senza mare” riesce a legare le diverse fasi storiche, fra navi affondate e flotte da ricostruire, dopo un primo dopoguerra tumultuoso in cui molte società fallirono e soltanto la Ngi, il Lloyd Sabaudo e la Cosulich, Società triestina di navigazione che aveva inglobato il Lloyd austriaco divenuto Lloyd triestino, riuscirono a sopravvivere e a beneficiare del decreto per la cantieristica e la costituzione dell’Istituto del credito navale sotto il fascismo. L’emblema il varo del Rex, un nome ripreso anche da bar, cinema, teatri e perfino elettrodomestici, che nel 1931 scendeva in mare. La riorganizzazione vedeva così affidata alla società Italia con base a Genova le linee verso le Americhe, al Lloyd triestino i servizi per India, Estremo Oriente e Australia, alla veneziana Adriatica le rotte per Dalmazia, Eritrea, Somalia e Mar Nero mentre alla napoletana Tirrenia i collegamenti con Sicilia e Sardegna, oltre Maghreb, Spagna e Nord Europa. Poi la tempesta della Seconda guerra mondiale, dove la Regia assolse il suo compito: i rifornimenti per il Nord Africa. Fino al requiem della Marina di Mussolini: l’affondamento della corazzata Roma dopo l’8 settembre 1943. È proprio attraverso la storia di una nave che Valle trova il filo rosso per legare il destino di una “patria senza mare”. L’idea di far recuperare all’Italia una centralità nel dopoguerra, con Enrico Mattei alla guida dell’Eni, vede durante la crisi di Suez nel 1956 la scelta di appoggiare l’Egitto di Nasser, che arriva nello stesso anno dell’affondamento del mercantile Andrea Doria, speronata dalla prua dello Stockholm. Un disastro simbolo, dopo il declino industriale e di Finmare fino all’abbandono del settore passeggeri. Iniziava così la rivoluzione del container, che avrebbe cambiato l’economia anche in un Mediterraneo, strategico e indispensabile, dove negli anni Ottanta l’Italia sembrava aver rialzato la testa. Bettino Craxi scelse la cerimonia di consegna della portaerei leggera Garibaldi, costruita a Monfalcone, il 30 settembre 1985 a Trieste per delineare le linee della sua politica. Oggi, senza scomodare la guerra in Ucraina, l’ex Mare nostrum fa i conti con una Libia contesa tra Russia, Egitto e Turchia, mentre la Cina prosegue la propria espansione tra Africa e la “nuova via della seta” dove il porto greco del Pireo non basta più e quello di Trieste è svanito. In un mondo sempre più globalizzato il mare è lì a fare la propria parte. L’Italia, con la sua storia navale importante, resta appesa alla prospettiva, un domani, di vedere fra Tirreno e Adriatico “abbracciarsi” Genova con il Centro del mare e Trieste con il Museo del mare in Porto vecchio. Prospettive di speranza da Valle, seppur convinto che «gli italiani non sono un popolo di marinai».

Argomenti:cultura

Riproduzione riservata © Il Piccolo