Con “Ricette e precetti” davanti ai fornelli si incontrano cristiani, ebrei e islamici
È uscito per le edizioni Giuntina il libro di Miriam Camerini “Ricette e precetti” (pagg. 220, euro 18), illustrazioni di Jean Blanchaert, ricette di Benedetta Jasmine Guetta e Manuel Kanah, prefazione di Paolo Rumiz. Sono quarantacinque storie e ricette che raccontano in modo documentato ma divertente e leggero del rapporto intricato fra cibo e norme religiose ebraiche, cristiane e islamiche. Nata a Gerusalemme nel 1983 e residente a Milano, Miriam Camerini è regista teatrale, attrice, cantante e studiosa di ebraismo. Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo di seguito la prefazione al libro.
L’Europa – questo frastagliato capolinea dell’Asia – ha confini certi solo sull’Atlantico. Per questo fattore fisico, essa è l’inevitabile “destino final” (così come lo chiamerebbero gli spagnoli) di infinite cose: popoli, merci, costumi, toponimi, canti, leggende. In Europa, la Terra del tramonto, questi fattori umani si addensano fatalmente mescolandosi o formando degli arcipelaghi di diversità, e in questo sovraffollamento sono obbligati giorno dopo giorno a scegliere tra il buon senso della convivenza e la follia del conflitto. Perché non includere i cibi in questa grande corsa verso Occidente? Perché non vedere l’Europa come un desco dove approdano le più favolose tradizioni della cucina? Che cosa più del cibo riesce a coniugare il mistero dell’identità e della contaminazione, disinnescando il conflitto fra i due? Non vi è pietanza mediterranea “tipica” di un territorio che non venga da lontano e non nasca da un imbastardimento. Basterebbe questo a sbugiardare i teorici della purezza e delle radici. I nomi dei cibi parlano da soli. Mia nonna triestina, nata nell’impero austro-ungarico, preparava dei dolcetti di Natale a forma di luna crescente chiamati curabiè di trasparente origine turca (il nome, se non altro, lo conferma). Erano giunti nel porto adriatico dopo l’annessione della Bosnia da parte degli Asburgo e nessuno a Trieste sentiva (e tuttora sente) rischio di scontro fra l’affermazione della cristianità natalizia e la forma “islamica” di quella goloseria, non a caso identica a quella dei croissant. 6 Ma i cibi sono anche un potente sensore di conflitto. Ho udito il leader populista Jorg Haider rivendicare in un comizio a Vienna la purezza della carne di maiale austriaca contro l’invasione dei prodotti americani a base di soia. Alla vigilia del suicidio della Jugoslavia, in un ristorante sloveno mi sono sentito rifiutare i “cˇevapcˇic´i” che avevo ordinato, in quanto “carne serba”. L’Europa esiste, a mio parere, là dove i cibi esercitano ancora il compito di assorbire e naturalizzare le diversità, dando vita a una globalizzazione “dolce”, che è l’esatto contrario del minestrone insapore che ci viene offerto e inflitto dal sistema della grande distribuzione. Un tempo questa formidabile, saggia capacità di incontro tra culture attraverso la cucina era ravvisabile in città mitiche come Alessandria d’Egitto, Costantinopoli, Livorno, Salonicco. A Sarajevo, fino alla guerra del 1992, nelle case cristiane era costume tenere nella dispensa una pentola che non aveva mai toccato carne di maiale in cui cucinare per ebrei e musulmani. Quella pentola era Europa, a tutti gli effetti; e la guerra, scatenata fraudolentemente in nome della purezza etnica e dei valori europei cristiani, si è scagliata proprio contro quella cultura dell’incontro. Che è quanto di più europeo possa esistere. Oggi questa cultura sopravvive a fatica in città come Marsiglia, in Andalusia, in Sicilia, e soprattutto nei luoghi dove una grande borghesia colta e viaggiatrice ha saputo tenere i contatti col mondo. Ebrei, armeni, italiani, greci, dalmati, libanesi di diversa radice religiosa. In questi luoghi, in cui includo la mia Trieste, senti che la storia non la fanno solo gli statisti, i generali o i grandi inventori, ma – a pieno titolo – i cuochi e le massaie. Non ho nessuna paura di dire che in un moussaka o in un gefilte fish vi è Europa allo stesso livello che nell’Inno alla gioia di Beethoven. —
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