Capucci: «Nella vita ho realizzato tutti i sogni. La moda di oggi è irrispettosa, non lascio eredi»
TRIESTE Settant’anni tra colonne, capitelli, rosoni, architetture ardite. Prima immaginate, poi certosinamente disegnate, in bianco e nero e a colori, infine trasferite nelle sete, nelle organze, nei taffetà. Oggi Roberto Capucci, l’ultimo aristocratico della moda italiana, compie novant’anni. Dice di non volere auguri, anche se in fondo non gli dispiace la telefonata degli amici, pochi e selezionati, nella casa che guarda Roma ai suoi piedi. Ma una parte del suo cuore è a Villa Manin, dove da alcuni anni hanno sede la Fondazione e l’imponente archivio Capucci, 480 abiti, migliaia di disegni, illustrazioni, documenti di un capitolo irripetibile della moda italiana. Il Friuli Venezia Giulia gli ha tributato negli anni due importanti omaggi, a Palazzo Attems Petzenstein e ai Musei provinciali di Borgo Castello a Gorizia nel 2004, in una mostra di 110 abiti-scultura e di disegni autografi, curata da Raffaella Sgubin, e a Villa Manin nel 2018, dove, per iniziativa dell’Erpac, le sue creazioni hanno incontrato le immagini floreali di Massimo Gardone.
Signor Capucci, come festeggia questo traguardo?
«Ma sa che da quando sono nato non ho mai festeggiato un compleanno? Quando ero a scuola mia mamma mi spingeva a invitare gli amichetti della classe. Ho sempre risposto allo stesso modo: voglio stare da solo, per conto mio, a pensare. Che c’è da celebrare? Direi che piuttosto c’è da meditare sugli anni che vanno avanti. Sono arrivato a novanta e sono contento, perchè nella mia vita ho fatto quello che volevo».
Settant’anni di carriera. Ha ancora un sogno?
«Sogno sempre. Forse sono sbagliato, perchè invece di pensare a cose più pratiche, ho sempre sognato di fare i vestiti che mi piacevano, che davano un senso alla mia vita. Ho iniziato negli anni ’50 e continuo, ogni giorno. Questa è la mia vita. Una forma di egoismo? Non so, non credo, per me la cosa più importante è creare».
E un rimpianto?
«Nessuno. Ho avuto una bella famiglia, adoravo mia madre, mia sorella lavorava con me, quando ci vedevamo, insieme a mio fratello, che ha dodici anni meno di me, erano momenti d’amore e di felicità. Oggi ne ho dieci, tra nipoti e pronipoti».
Un suo abito celebre è tornato pochi giorni fa in televisione, nel film sulla vita di Rita Levi Montalcini. Com’è nato quel vestito?
«In modo molto semplice. Sapevo dell’Oscar, ma la Montalcini l’avevo vista in foto solo seduta. È piccola e magrissima, mi dissero. Così disegnai un vestito con tre colori molto caravaggeschi, verde scuro il davanti, viola scuro ai lati, dietro amaranto. “È perfetto per me”, mi disse. Avevo disegnato una leggera coda di mezzo metro, che lei rifiutò. “Le pare che porto la coda?”. Allora io le dissi: “Professoressa, lei è l’unica donna che prende il Nobel. Quando si alza, si alzeranno tutti gli uomini in frac. Lei andrà verso il re, perciò lei deve essere la regina della serata”. Accettò. “La chiamo se non casco”, mi salutò. Siamo diventati molto amici. Dopo una mostra che feci a Stoccolma, inaugurata dalla regina, che mi chiese di portare il vestito del Nobel, la Montalcini me lo regalò. “Capucci - disse - ormai l’hanno visto tutti”».
Lei ha lavorato con Pasolini in “Teorema”. Come lo ricorda?
«Educatissimo, rispettoso, una persona meravigliosa. Quando venne in sartoria erano tutti perplessi. Io invece ero contento: avevo letto tutti i suoi libri, le sue poesie, adoravo quella dedicata alla madre. Pasolini mi disse: “Le porto la scaletta del film così lei inizia a disegnare per questa donna bellissima e borghese”. Io ero talmente emozionato che non gli chiesi nemmeno chi fosse la protagonista. Poi, quando venne la seconda volta, me lo disse. Mi prese quasi un infarto. Era l’attrice che più amavo, Silvana Mangano. Avevo realizzato due desideri: conoscere Pasolini e vestire la Mangano, che non era mai venuta da me, perchè era fedele alla sua sartoria».
La sua musa...
«Figlia di un ferroviere, origini umili, ma classe incredibile, innata. Difficile spiegare cos’era, era bella tutta, gambe, mani, ginocchia, vita sottile. Mi raccontò che era nauseata dalla parte che faceva in “Riso amaro”, non le piaceva, non voleva fare quel tipo di bomba atomica italiana. Cominciò a dimagrire finchè in “Morte a Venezia” di Visconti era una visione. Stupenda».
Lei ancora la disegna.
«Sempre. Mi ha talmente influenzato che dopo di lei non ho più voluto vestire nessuna attrice sul set. Quel film è stato un sogno, ne ho un ricordo prezioso. Nella vita ne basta uno, una cosa bella non la devi ripetere».
Ha sempre vestito, invece Franca Valeri, mancata poco tempo fa...
«Non aveva il corpo della Mangano, ma era straordinaria, quello che poteva dire con una battuta valeva l’oro del mondo. Spiritosissima, intelligentissima, coltissima. La adoravo, eravamo amici per la pelle. L’ultimo vestito gliel’ho fatto a 95 anni. Ne aveva centinaia di miei, tutti colorati, alcuni neri ma sempre con piccole rushes a colori, blu royal, rosso scuro, verde. Si vestiva con facilità, perchè non portava abiti alla moda ma abiti adatti a Franca Valeri».
Che dive ha amato vestire?
«Non la Loren, era un po’ troppa, una donna forte, e poi non avevamo un contatto. Catherine Spaak, la prima moglie di mio fratello, era molto bella, molto francese. Le attrici di teatro le ho vestite tutte, Rina Morelli, Andreina Pagnani, Valeria Moriconi, Mariangela Melato. Me ne mancano due: la Lollobrigida, che non era il mio genere, e Monica Vitti, persona bellissima, ma stava molto attenta a non spendere».
E Marilyn?
«L’ho vestita, ma non l’ho mai conosciuta. Veniva da me Milton Green, suo amico e fotografo personale. Io gli davo i disegni con i campioni di tessuto, sapevo che la Monroe amava abiti stretti, drappeggiati. Lui mi portava le misure e i modelli che aveva scelto. Purtroppo quando è morta sono stati venduti da Sotheby’s a Londra, l’ho saputo tardi, altrimenti almeno uno l’avrei ricomprato per ricordo».
Adesso lei disegna per il balletto, come quest’estate, per il Festival di Spoleto.
«È stata un’esperienza straordinaria. Andavo sempre a Spoleto ai tempi di Visconti, di Nureyev, di Shippers, poi, morti loro, l’ho un po’ disertato. Ultimamente ho conosciuto Daniele Cipriani, bravissimo organizzatore di balletti, che ha una passione pazzesca per i miei abiti. Mi ha proposto di realizzare quindici bozzetti per “Le creature di Prometeo”, unica partitura di Beethoven per la danza. È stato un successo, alla fine gli applausi erano quasi imbarazzanti».
Lei ha cominciato a vent’anni, nel ’51, con Giovan Battista Giorgini, l’inventore della moda italiana. C’è un momento in cui si è sentito scoraggiato?
«Sì, una volta, tornando da Parigi. All’epoca avevo due case di moda, una a Parigi in Rue Cambon e una a Roma in via Gregoriana. Facevo una vita d’inferno, avanti e indietro dalla Francia. Avvertii un senso di stanchezza, volevo mostrare i miei abiti quando ero pronto, senza scadenze. Il mio “Oceano”, ordinato dal Ministero degli esteri per l’Expo di Lisbona, costato una follia, richiese il lavoro di cinque ragazze per cinque mesi. Impensabile per me fare due collezioni l’anno».
È uno stress che vivono molti stilisti di oggi.
«Uno sbaglio. Il lato commerciale vince, intorno a questi signori c’è gente che li sfrutta, poveretti. Quando ho esposto alla Schauspielhaus di Berlino, nel ’92, c’erano 232 modelli, fatti in un anno e mezzo circa. Sono andato in Cina, Giappone, America, Europa, ma sempre con i miei tempi».
Cosa risponde a chi dice che lei fa sculture, non vestiti da indossare?
«Lavoro dal ’51, se non avessi mai venduto, sarei fallito da tempo. Io ho sempre venduto, indubbiamente a signore molto particolari. Le principesse romane, le aristocratiche, erano tutte mie clienti, donne di enorme personalità, con cui lavoravo benissimo, sapevo quello che a loro piaceva. La principessa Pallavicini, per esempio, che ha uno dei palazzi più belli d’Italia, venne in sartoria negli anni ’50. Voleva maniche lunghe, scollatura a giro collo, vita stretta e la coda da sera. Io obiettai: “La calpestano principessa”. E lei mi rispose: «Un signore non pesta mai la coda a una dama”. S’immagini dire oggi una cosa del genere? Mi mettono in galera, dicono “questo è un pazzo”».
È contento di aver raccolto tutto il suo archivio a Villa Manin?
«Moltissimo. Il posto è splendido, fuori dal mondo, in un punto eccezionale, dove non c’è moda. È perfetto per chi, come me, non ha mai fatto la moda alla moda. Nel ’58, quando inventai la linea quadrata, d’avanguardia e molto rischiosa, la stampa italiana mi coprì di critiche. “Ha messo la donna in scatola, è morto” dissero. Poi l’America mi diede l’Oscar per la collezione dell’anno. Quando tornai in Italia ricevetti un premio anche a Milano, me lo consegnò Jole Veneziani. “Lo prendo con molta gioia - ringraziai - ma ricordatevi che in Italia mi avete massacrato”».
Capucci si è mai innamorato?
«Mai. Sì, del mio lavoro».
Lei è molto critico verso la moda di oggi.
«Quando vedo la donna dissacrata, mezza nuda, che gira per le passerelle, non la amo molto. Fare moda è avere rispetto per la donna. Non si può servirsene come strumento di divertimento. Perchè uno stilista si deve sbizzarrire per le proprie follie? Non mi riguarda».
Lascia un erede?
«No, nessuno. Ho fatto una moda molto difficile ed è molto difficile trovare qualcuno che la continui. E l’ho fatta in un momento eccezionale, dopo la guerra, quando la gente ricominciava a vivere e le donne avevano voglia di cose belle. Avevo alle spalle il liceo artistico, poi l’Accademia di belle arti. La mia mano era più propensa a disegnare architetture che vestiti, mi interessavano più le linee che gli ornamenti. Oggi chi può dire a un ragazzo di fare questo percorso?».
C’è una donna che ancora vorrebbe vestire?
«Un certo tipo di donna è sparito, non se ne sente più parlare. Oggi alle attrici tutti regalano prêt-à-porter. Non c’è un’altra Audrey Hepburn, che purtroppo io non vestii perché il suo sarto era Givenchy, non c’è la Garbo, la Mangano. No, non mi viene in mente nessuna». —
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